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LA VERGOGNA DI AVERE PUDORE

Roberto Pappacena

01/10/2009

 

Esiste ancora il pudore? E a cosa serve? La società contemporanea certamente non lo ama, e colpisce il fatto che in questa svalutazione si trovino concordi soggetti ideologicamente molto lontani.

Il Sessantotto svalutò il pudore in quanto connotato da un ipocrita ancien règime e rivendicò, con innegabile ingenuità, la spontaneità e la naturalezza come strumenti di liberazione.

D'altro canto, i moderni mezzi di comunicazione di massa, con la loro intrusività, spettacolarizzano ciò che una volta era tenuto nascosto.

Assistiamo così ad una pubblicizzazione del privato, che è perfettamente in linea con talune caratteristiche di fondo della società contemporanea:

propensione al consumo, e dunque riduzione di ogni realtà a prodotto da esibire perché possa essere venduto; prevalere della funzione visiva (l'immagine seduce di più); supremazia dei valori tecnici (come fare) su quelli etici (perché fare). E dunque corpi, emozioni, sentimenti vengono utilizzati come cose: in altri termini l'individuo non è più considerato come una totalità, ma viene scomposto in parti e allegramente cannibalizzato.

Basti pensare ai Reality Show, al

Grande Fratello, et similia, dove il voyeurismo regna sovrano.

Con una paradossale inversione di significato, la perdita del pudore viene spacciata per libertà, mentre di fatto si risolve in una appropriazione dell'intimità, e dunque in un tentativo di cancellazione dei valori umani.

È perciò il momento di riconsiderare l'importanza del pudore, ovviamente non in una prospettiva moralistica: distinguendo, cioè, il pudore come valore dalla inibizione come problema nevrotico.

Bisognerà allora ricominciare da capo.

Nell'Eden Adamo ed Eva erano nudi ma provavano vergogna (Gènesi, 2,25). Però, dopo aver mangiato il frutto dell'albero del bene del male, «si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» (Gènesi, 3,7).

Il racconto biblico mostra chiaramente che il pudore è primariamente connesso con l'autoconsapevolezza.

Nel momento in cui acquistano coscienza di sé, Adamo ed Eva diventano esseri umani, assumono cioè una soggettività pensante che è un essere distinti, e dunque il risultato consapevole di una separazione.

L'esperienza della individualità è, in sostanza, esperienza di solitudine e di distanza, ma anche di intimità con noi stessi, con quel nucleo nascosto che ci differenzia dagli altri.

Il pudore è allora una sorte di barriera protettiva a difesa dell'intimità: pone dei limiti, sancisce delle discontinuità e, contro quella che oggi è diventata una «dittatura della trasparenza», stabilisce degli interdetti. Soprattutto, si oppone allo sguardo, in cui spesso si cela un tentativo di appropriazione, un voler annullare le distanze e le differenze. Nudità e interiorità vanno insieme. Artemide punì Atteone, che l'aveva sorpresa nuda, trasformandolo in cervo e facendolo sbranare dai cani.

La voracità dello sguardo, che non rispetta il segreto dell'altro, trova qui una risposta simmetrica nella voracità concreta dei cani. E Atteone è, per così dire, divorato dal suo stesso desiderio.