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RICADUTA DELLA SPERANZA

Roberto Pappacena

01/11/2009

Sento spesso parlare di un ritorno delle tenebre del Medioevo: nulla, mi pare, di più sbagliato. In realtà nel Medioevo, nonostante le crudeltà, le superstizioni, le imperanti ingiustizie, solidissima era la nozione della speranza, e il pensiero dell'inferno costituiva per lo più una valvola di sicurezza: perché, come ha scritto acutamente Mario Luzi, il male aveva nell'inferno «il luogo e il tempo in cui la speranza era stata definitivamente delusa… Male eterno, certo, ma proprio in quanto tale, un'immagine capovolta che suppone la transitorietà del male, la sofferenza come episodio». L'inferno, insomma, era «soltanto una parte, la parte afflitta dell'eternità». Per il resto - e ciò vale sino a Dante - il dolore, condizione provvidenziale e transitoria, si risolveva in una prospettiva di felicità infinita, di una immensa grazia di amore e di luce.

Ma già il Petrarca «ci introduce in un regno dove il dolore è eterno, non limitato a un'accezione, a un momento dialettico dell'essere».

La nozione del male comincia a estendersi a tutta la vita («La vita è male», dirà molto più tardi Giacomo Leopardi) e di conseguenza, la speranza è destinata a scemare sino a perdersi quasi del tutto, mentre l'unica possibile felicità risiede nella memoria, nell'età d'oro dell'infanzia, negli ameni inganni della fanciullezza.

Così, una volta entrati nell'età della ragione, non ci resta che prendere coscienza della terra desolata in cui la Natura ci ha condannati a vivere.

A ben guardare, tale processo psicologicamente involutivo che induce a guardare indietro e a ironizzare amabilmente impietosi, come nel Boccaccio, sulla natura umana, corrisponde storicamente non certo al Medioevo, ma all'età dei Comuni e delle Signorie, al fiorire di un benessere economico, di un fervore commerciale che nel tre-quattrocento vede, con lo sviluppo dei «borghi», il trionfo della borghesia dei mercanti e dei banchieri.

Per ritrovare un risorgere, sia pur drammatico, della speranza, dovremo giungere alla Riforma e alla Controriforma, agli anni della dominazione spagnola (non per nulla il Manzoni ha ambientato in quell'epoca il suo romanzo) e, successivamente, ma in senso decisamente scientifico e filosofico, all'età dell'Illuminismo che animerà del suo pensiero riformatore, e poi rivoluzionario, le speranze del Risorgimento italiano, conciliandosi e fondendosi con il sentimento romantico di una individualità e di una patria da riconquistare. Vittorio Alfieri, uno dei tanti precursori della rinascita italiana, «avea nel volto - il pallor della morte e la speranza».

Con l'Unità, la speranza ebbe una ricaduta: le nuove generazioni, deluse dal consolidarsi del potere bancario e industriale («l'idolo dell'oro»), videro «l'ideale annegare nel fango». Spetterà alla prima guerra mondiale il tragico compito di scuotere il benessere contraddittorio durato qualche decennio: e ad essa seguirà il nazionalismo fascista, intento a inoculare nelle masse un astratto orgoglio di grandezza ricalcata sui fantasmi dell'Impero di Roma. Dal naufragio della seconda guerra mondiale l'Italia salverà i rottami di una libertà, ricostruita poi con fatica e con rinnovata speranza.

Nel frattempo la lotta di classe si attenuerà un po' alla volta e si spegnerà per l'allargarsi a macchia d'olio del benessere e del consumismo che, come ha raccontato lucidamente Bunuel, trasformerà l'operaio in un benestante possessore di beni.

Ed oggi, nella crisi inarrestabile della civiltà tecnologica, la speranza riprende a perdere terreno, ad affievolirsi nelle nostre disorientate coscienze. Le nuove generazioni vedono il futuro sempre più buio, e perdono sempre più il senso tradizionale del vincolo familiare, oltre che la fiducia nello Stato: una civiltà, insomma, che, per il formalizzarsi della Fede e per il congelarsi della Carità, vede sgretolarsi di nuovo, inesorabilmente, il sostegno della Speranza.