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CHE GUSTO C'E'

Antonio Alberti cuciarin

01/01/2009
Non ci sono più i sapori di una volta! Quante volte abbiamo sentito e detto questa frase, come dicessimo qualcosa di nuovo; sicuramente da sempre gli uomini hanno avanzato una simile ipotesi.
Da una parte contiene senz'altro una sua verità, dall'altra non è sempre detto che ciò che proviene dal passato debba essere indiscutibilmente
«più buono» del moderno, tesi che perfino il Mahatma Ghandi confutava. Ci sono delle sapidità che per nulla vorrei rigustare, e che non sto qui ad elencare.
Uno per tutti: non sarei capace, spontaneamente, di inghiottire un cucchiaio di «pestariei da late»: ne ho mandati giù troppi e malvolentieri! Sarà un sapore di una volta, di quelli dimenticati dalla cucina d'oggi finché volete, ma, per favore, mangiateveli pure! Naturale che qualcuno di questi gusti si sia radicato nella memoria:
anche loro, come gli odori, fanno riemergere cose che credevi del tutto cadute in dimenticanza, e allora inizi a viaggiare dentro la memoria per identificare qualcosa che ha titillato il palato «ai bei tempi» e che ora non hai più occasione di trovare, o perlomeno non t'industrii a cercare.
Tanto per dire: sarei curioso, e goloso, di gustarmi della fava arrostita, di quella che andavamo a rubacchiare dall'«arfa» di qualcuno (magari quelle dietro casa dove era più difficile farsi individuare) e che poi arrostivamo dentro una vecchia padella bucata, sopra un fuocherello improvvisato, fuori via.
Uno solo di quei legumi durava un'eternità.Mi piacerebbe succhiare una carruba, per capire se in realtà è così gustosa come mi pareva allora, oppure infilare il viso dentro un cartoccio di carta-paglia gialla con dentro farina di castagne comperato dalla vecchia signora Viale, giù al mercato vecchio, per dieci lire prima di entrare a scuola, oppure un panino dolce con l'uvetta del Panificio Comunale; ma ciò che vorrei soprattutto riassaporare, sarebbero «i tazoi» (pinoli), i semi delle «pugnaches» (strobili o pigne), quelle del pino cembro o cirmolo.
E' proprio d'autunno che le pigne maturano, non tutte e non sempre perché, affermavano i vecchi, solamente ogni sette anni si verificava una grande produzione, in ogni caso, due anni ci vogliono all'albero per portare a maturazione una singola pigna. Noi ragazzi si partiva a piedi con un carrettino costruito in proprio, che si poteva guidare tramite due tiranti di cordino, come nel bob, e ci portavamo fin sotto il passo Falzarego oppure il Giau, dove c'erano e ancora ci sono, dei grossi cirmoli, e sui rami più alti: «ra pugnaches.» Ad uno toccava il compito di arrampicarsi e di staccarle una ad una; quelli sotto le infilavano in un sacco di iuta. Chi non ha mai provato, può solo immaginarsi come ci si conciava: impiastricciati di resina che se abbracciavi qualcuno, ti rimaneva incollato; con la goduria delle madri, anche se eravamo giustamente malvestiti all'uopo.
Quando ritenevamo di aver un buon raccolto, montavamo sul carrettino con il sacco e tutto il resto, e poi giù, dove la pendenza lo permetteva, per la strada o stradone a seconda; tanto di auto ce n'erano ben poche, soprattutto dal Giau.
Ma per arrivare, alfine, al sospirato pinolo non era poi così facile se lo strobilo non era giustamente maturo: si infilavano allora nella bocca della cucina a legna, sulle braci con l'apposita pinza (da bronzes) così la resina si scioglieva per andare a cadere nella sottostante cassettina della cenere, quando non prendevano fuoco, quindi si estraeva la pigna ancora bella calda per subito aprirne le squame ed estrarne il piccolo guscio legnoso e duro, che si doveva poi rompere per accedere finalmente al seme: il pinolo, profumato, dolce e con lo spiccato e caratteristico sapore di pino cembro. Pinoli; che per diversi giorni avrebbero riempito le nostre tasche, finché sarebbero durati sarebbero stati la impercettibile colonna sonora anche intanto delle lezioni: crik-crok tra i denti i gusci s'aprivano, offrendo l'interno seme dolcemente gustoso, quel sapore di resina e legno che m'è rimasto negli anfratti dell'encefalo, sinapsi neurotiche evocative che vorrebbero essere richiamate in vita, soddisfatte ne «la ricerca del tempo perduto».
Ohh! I negozi ne sono ben provvisti, cari come piccoli gioielli venduti a carati, quelli molto più grossi dei pini marittimi che scalci via nelle passeggiate al mare perché non ti prendi neppure la briga di chinarti a raccoglierli (o forse ti vergogni a farlo).
Ma quelli di allora: quelli di allora erano tutta un'altra cosa, un altro sapore. Magari sono semplicemente il sapore del tempo, di altri tempi, quando il poco era cosa di tutti i giorni e quel poco lo si doveva godere maggiormente; ma questi non sono che rimpianti, melanconie, stupide nostalgie che assalgono solamente gli anziani. O no!?