Lei era così, un impasto di severità sarda e di quella sorridente a volte caustica ironia così propria della sua amata Trieste. A Cortina per una vita, nella scuola, tra la gente importante e quella della porta accanto: una bella famiglia, un compagno devoto amico della poesia, i figli affettuosamente lontani. Gianna, l’altra anima di Roberto, i Pappacena: più di mezzo secolo di simpatia spesa nel mondo della cultura con la semplicità di chi ha saputo farne uno stile di vita. A lei, per uno dei quei giochi di cui il caso talvolta si compiace,
dovetti se dalla città di Miramare ero salito fin quassù per non dovermene più andare: aveva lasciato un incarico al liceo - stava per nascere Laura - e mi fu offerto di sostituirla.
Furono i miei primi amici, i miei traghettatori in una società che mi era sconosciuta, impervia nella cinta delle sue montagne come nei rapporti personali: una strana comunità - allora mi parve - capace di decuplicarsi improvvisamente nei periodi fissi dell’anno, ma sempre tenacemente ferma a una tradizione autentica e immutabile. Gianna ne era già partecipe e innamorata (che c’entrasse Roberto?), come amava
con finta burbanza i suoi alunni: io li seguivo, i due Pappacena, da ogni distanza: dal piccolo condominio degli inizi a Villa Giavi al buon ritiro di Zuel, o magari incontrandoli nella grande Piazza sul mare di S. Giusto. Cara amica, sempre pronta a rimproverarmi qualche debolezza, eppure capace di farmi sentire, nell’amore e nella parlata della mia città, un po’ meno lontano dalle mie radici. Era spesso sull’orlo di
qualche malattia, e io la pensavo indistruttibile.
Ora ha ceduto, lasciando in Roberto, oltre al dolore, un senso profondo di gratitudine per una vita magnificamente condivisa. In me il rammarico di una perdita, la dolente sensazione di uno spazio rimasto vuoto nel gran quadro della vera e rara amicizia. Questo è il mio saluto