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IL CASO CODIVILLA

Luca Dell'Osta

31/12/2009

La «questione Codivilla», non se la prenda nessuno se la chiamiamo così, in questi ultimi mesi ha davvero monopolizzato l’attenzione della popolazione e dei media, guadagnandosi la prima pagina dei giornali (e servizi di parecchi minuti in qualche TG) grazie all’ormai nota vicenda delle presunte cartelle gonfiate.

A dir la verità, la situazione è molto più articolata e complessa di come può sembrare agli occhi di tutti coloro che hanno già condannato i tredici indagati per truffa e falso ideologico – secondo le imputazioni della procura - ancora prima della celebrazione del processo.

Da una parte, infatti, c’è la vicenda giudiziaria, e su questo c’è ben poco da dire: cercheremo di spiegare dov’è l’inghippo, ma l’unica cosa da fare è aspettare che la giustizia faccia il suo corso. Scagionando, ci auguriamo, o condannando gli indagati: Alberto Vielmo (ex direttore generale della Ulss n.1), Massimo Miraglia (amministratore delegato della Giomi, la società privata che detiene il 49% delle quote del Codivilla), Carlo Brusegan (direttore sanitario), Angelo Boumis (vice direttore sanitario), Francesco Centofanti, Giuseppe Lambitelli, Coretta Sapienza, Mauro Ciotti, Roberto Orani, Giorgio Caterino, Cosimo Salfi, Emanuele Broccio e Carmela Falcone.

Dall’altra, invece, c’è la vicenda amministrativa: i termini della sperimentazione pubblico-privato sono conclusi, e la Regione dovrà decidere, quam breviter, quale sarà il destino del Codivilla; a ciò si aggiungono il Sindaco che vuole entrare nella società, gli immancabili litigi (questa volta con Gianfranco Talamini e Renato Pesavento, in area minoranza, entrambi nel Consiglio di Amministrazione dell’ospedale), le bordate del consigliere regionale Guido Trento (PD) e la raccolta di firme per far tornare totalmente pubblico l’ospedale: insomma, un bel guazzabuglio dal quale, nelle prossime pagine, cercheremo di fare chiarezza.

 

Un po’ di storia: la sperimentazione

Il 13 giugno 2002 l’Ulss n. 1 siglò un accordo con la società Giomi S.p.A., azienda sanitaria specializzata in ortopedia, e dopo pochi mesi, il 10 dicembre 2002, la stessa Ulss n. 1 cedette alla S.r.l. pubblico-privata «Istituto elioterapico Codivilla-Putti» il corrispondente del 51% delle quote (due miliardi di vecchie lire di patrimonio e altri due di «know how»), mentre la Giomi versò il restante 49% delle quote - altri quattro miliardi di lire – in contanti. A metà del 2003, con il conferimento del capitale e a conclusione di una trattativa sindacale, partì il triennio di sperimentazione della gestione pubblico-privata del Codivilla, che venne rinnovata, il 17 novembre 2006, per altri tre anni.

Il 5 maggio 2009, in vista della scadenza della sperimentazione triennale, il segretario regionale alla sanità Giancarlo Ruscitti, su incarico della Giunta veneta, nominò tre esperti (Nicola Falcitelli, Francesco Longo e Stefano Del Missier) con l’obiettivo di valutare, entro gennaio 2010, la validità della sperimentazione. È a questo punto, sull’onda emotiva dell’inchiesta giudiziaria (vedi box e prossimo paragrafo), che nasce a Cortina il Comitato per la sanità, con precisi obiettivi: «far tornare l’Istituto Codivilla Putti un ospedale pubblico nella proprietà e nella gestione ULSS n. 1 come garanzia per il futuro; garantire a tutti i malati di tumore e non la terapia del dolore e le cure palliative a domicilio; riportare i servizi ambulatoriali sul territorio» (Estratto dello statuto del Comitato per la sanità di Cortina).

 

L’inchiesta giudiziaria

Ma facciamo un passo indietro.

Nel 2007, esattamente dal 30 marzo al 29 maggio, un ispettore del ministero delle finanze, Carlo Alberto Luccone, «visita» l’ospedale e si dà inizio alle ispezioni (solamente per quanto riguarda il triennio 2005-2007): prima viene sequestrato tutto il materiale amministrativo, e di seguito quello medico (le famose cartelle cliniche). Con il passare del tempo, trapelano i contenuti delle numerose ispezioni: delle 8.000 cartelle cliniche sequestrate, ben 800 sembrano presentare anomalie, e quasi tutte si riferiscono a pazienti del Putti malati di osteomielite (vedi box). Il 28 ottobre la procura di Belluno ha concluso l’inchiesta sulle ottomila cartelle cliniche controllate dagli inquirenti, di cui 743 sono risultate «gonfiate», per un danno stimato dalle Fiamme Gialle in 2,8 milioni di euro.

Tutto il materiale è stato trasmesso ai tredici indagati, che si stanno preparando al processo, insieme ai loro avvocati Paniz, Patelmo, Prade, Casagrande e Fiori.

 

La vicenda amministrativa

La Regione, come detto, in questi mesi dovrà decidere se prorogare la sperimentazione con il partner privato (confermando eventualmente la società Giomi S.p.A. o scegliendone un’altra), oppure se far tornare il Codivilla un ospedale al 100% pubblico.

È in quest’ultimo senso che vanno letti gli operati del consigliere regionale Trento e della signora Valeria Antoniacomi, presidentessa del già citato Comitato per la sanità.

Ma non ci sta Ermanno Angonese, direttore generale dell’Ulss n. 1: «A mio giudizio» ha dichiarato al Corriere delle Alpi il 31 ottobre scorso, «la sperimentazione gestionale dovrebbe essere confermata perché si è rivelata positiva. In questi sei anni ha prodotto dei risultati che non possono essere inficiati da anomalie che eventualmente dovranno essere dimostrate».

Della stessa idea anche l’amministratore delegato della Giomi Massimo Miraglia, il quale ha ricordato che nel 2003, quando la sua società acquisì il 49% delle quote del Codivilla, l’ospedale stava chiudendo. Da parte sua, la Antoniacomi ha cercato di rassicurare tutti: «Abbiamo trovato l’appoggio di molti luminari della medicina che sarebbero ben disposti a tornare o a venire per la prima volta al Codivilla», ha dichiarato.

Non è d’accordo però il direttore sanitario Brusegan: «Mi chiedo come mai questi luminari della medicina non si siano fatti vivi negli anni scorsi. E poi, vogliamo ricordare in che stato versava il Codivilla sei anni fa, prima che la Giomi S.p.A. entrasse in gioco?». Senza ombra di dubbio il privato ha investito molto denaro per l’ammodernamento e il miglioramento dell’ospedale.

Ma è il segretario Ruscitti, dalla Regione, a raffreddare gli animi: «L’edificio è di proprietà dell’Inail, e bisogna vedere se saremo in grado di mantenere l’ospedale solo pubblico, magari riconvertendolo in poliambulatorio.

C’è la possibilità, però, di trovare un altro partner privato: siamo legati all’esito dell’inchiesta penale».

Ecco quindi che il cerchio si chiude, con l’apertura di tre scenari. Il primo: il Codivilla torna completamente pubblico; il secondo: la Regione continua la sperimentazione pubblico-privata; terzo: la Regione continua la sperimentazione pubblico-privata, ma decidendo di affidare il 49% delle quote a un’altra società che non sia la Giomi S.p.A. Bisognerà attendere i prossimi mesi per avere una risposta certa.

 

Le beghe interne

È in questo contesto che si inseriscono le polemiche tra l’Amministrazione (Andrea Franceschi), e i due membri nel CdA dell’ospedale Pesavento e Talamini. «Siamo preoccupati da quanto sta accadendo», ha dichiarato, il 31 ottobre alla stampa, il primo cittadino.

«L’unico modo per essere aggiornati sarebbe stato quello di avere due rappresentanti nel CdA della società. È storia nota che i signori Pesavento e Talamini, indicati ancora dall’ex sindaco Giacobbi, siano rimasti al loro posto nonostante mancassero tutti i presupposti e in questi due anni non abbiano mai collaborato con noi. Sindaco, Giunta e Consiglio comunale non possono fare nulla, se non semplicemente invitarli a dimettersi (cosa che io ho fatto ripetutamente). Il CdA del Codivilla invece potrebbe sfiduciarli, ma evidentemente nel corso di questi anni non ha ritenuto opportuno farlo».

Non si è fatta attendere la replica di Pesavento e Talamini: «Siamo stati nominati membri del

Consiglio di Amministrazione quali espressione della comunità ampezzana. Ciò è avvenuto senza logiche politiche ma siamo stati scelti quali persone, anche di esperienza, che già in passato hanno dato la loro disponibilità per problematiche sociali della nostra comunità. E solo in questo senso i due soci del Codivilla, ossia la Ulss n.1 di Belluno e la Giomi S.p.A., hanno ritenuto di affidarci questo compito. E così, per la buona pace del signor Franceschi, abbiamo resistito alle becere e tristi logiche di occupazione e spartizione di posti di rilievo che questa amministrazione ha dimostrato di avere sin dai suoi primi giorni di vita. È bene dunque che si sappia che il Sindaco mai si è interessato del nostro lavoro, considerandoci a torto ed infantilmente suoi nemici e persone che avevano meno di lui a cuore l’interesse di Cortina. Sbagliava e adesso, proprio in questo delicato momento, riteniamo che questa amministrazione non sembri avere veramente a cuore l’interesse generale della sanità a Cortina. Ciò risulta purtroppo evidente dal fatto che per sterile opportunismo politico mai abbia preso una chiara e netta posizione in merito alla sperimentazione gestionale pubblico-privato».

Abbiamo quindi chiesto al Sindaco come il comune di Cortina potrebbe gestire l’eventuale (e remota) ipotesi di entrare nel CdA del Codivilla, comprando quote di società: «Se verrà confermata la gestione mista», ha dichiarato Franceschi, «indipendentemente da chi sarà il socio privato, avremmo intenzione di entrare nella società di gestione. Ciò sarebbe possibile attraverso il conferimento di denaro, oppure tramite l’apporto di beni o servizi. Visto che una delle ipotesi avanzate dalla Ulss n. 1 consisterebbe nella vendita dell’attuale distretto sanitario situato in via Cesare Battisti, noi saremmo disposti a concedere il cambio di destinazione a patto di trasformare il maggior guadagno derivante dall’operazione in quote societarie a favore del Comune e in investimenti a favore della sanità di Cortina. L’obiettivo è quello di ampliare i servizi sanitari e di mantenere una gestione a controllo pubblico, perché la salute è un tema troppo importante, soprattutto per un paese periferico come il nostro, per essere affrontato esclusivamente con un approccio privatistico e orientato al guadagno».

 

Box COME FUNZIONA UNA CARTELLA CLINICA

«Quando una persona viene ricoverata», spiega Carlo Brusegan, direttore sanitario, «in ospedale succedono una miriade di fatti. Il paziente mangia, dorme, prende la pastiglia, fa i raggi, viene visitato dal medico, va in sala operatoria… Tutte queste attività vengono registrate in un documento che si chiama cartella clinica, nella quale però ci stanno solo un numero limitato di informazioni. Il medico che la compila fa un’operazione di traduzione e sintesi di tutto ciò che succede e che ho ricordato sopra. Quando il paziente viene dimesso, naturalmente non gli viene consegnata la cartella clinica, perché è un documento non facilmente leggibile. Si fa quindi una seconda operazione, che è quella di creare una lettera di dimissione, sempre grazie a un procedimento di traduzione e sintesi. Nella scheda di dimissione le informazioni sono ulteriormente ridotte rispetto a una cartella clinica.

Il medico, quindi, sintetizza ulteriormente questi dati e compila la scheda di dimissione ospedaliera (SDO) la quale riporta al massimo cinque diagnosi e al massimo cinque prestazioni (vedi scheda a fianco). Ad ogni tipo di diagnosi e a ogni tipo di prestazione corrisponde un codice (sono i medesimi per tutta Italia). Una volta compilata la SDO e dimesso il paziente, la stessa SDO viene trasmessa agli uffici amministrativi che

inseriscono nel computer i codici relativi alle diagnosi e agli interventi. Il computer, a sua volta, emette un altro numero, il DRG (diagnosis-related group, raggruppamenti omogenei di diagnosi). Ad ogni DRG corrisponde una cifra, che è la quantità di denaro che lo Stato darà all’ospedale per il ricovero del paziente. In questo procedimento c’è un continuo processo di traduzione e sintesi, il quale naturalmente necessita di una coerenza di fondo. Ora, qual è la tesi della accusa? Che noi abbiamo giocato sulle diagnosi e sulle procedure, falsificandole, per ottenere DRG che prevedessero compensi più alti. La cosa che mi dispiace di più, in tutto questo», confessa Brusegan, «è che si sia messa in giro la voce che i 2 milioni e 800mila euro di differenza ce li siamo intascati noi medici.

Niente di più falso».