La montagna è lì. Non è buona né cattiva, non è bella né brutta. La montagna è un monolite di roccia e neve e ghiaccio, e, come ogni elemento della natura, è del tutto indifferente agli uomini e al loro destino. Sono gli uomini, con i loro occhi e con le loro azioni, che la rendono buona o cattiva, bella o brutta.
Erano già due mesi che desideravo, addirittura sognavo, di fare un giro dalle parti della Tofana di Rozes. Salire a piedi per il nastro di asfalto che, dal bivio della strada che porta al Passo Falzarego, sale verso il Rifugio Dibona, e, da lì, ammirare la parete che per me è la più bella del mondo, la parete sud della Rozes. Vederla dalla finestra di casa mia è certamente bello, al mattino o alla sera quando si colora del suo colore che non si può descrivere a parole. Ma vederla da sotto, da vicino, era per me il modo per uscire dall'internamento, dopo i due mesi allucinanti che abbiamo dovuto subire a causa del virus.
Lo so che la parola giusta sarebbe lockdown, ma so anche che io detesto l'inglese, non tanto per la lingua in sé, quanto per la sudditanza linguistica, che si traduce in sudditanza culturale, nei confronti di questa lingua che parola dopo parola, frase dopo frase, sta fagocitando la nostra bella lingua. Se noi italiani avessimo un po' di orgoglio e di sano amor proprio, ci ricorderemmo che noi abbiamo avuto Giotto e Dante Alighieri, abbiamo avuto Michelangelo, Leonardo, Caravaggio, Manzoni, Leopardi, Montale e tanti altri geni dell'arte e della letteratura, e allora non ci piegheremmo all'uso di queste parole inglesi solo per pigrizia, o perché ci vengono imposte, come se esse riuscissero a esprimere concetti superiori che la lingua italiana non è in grado di significare. Fine della digressione linguistica.
Per tornare alla Tofana di Rozes. Sabato mattina, nove maggio duemilaventi, mi sono alzato presto e alle sette e mezza stavo camminando verso il Rifugio Dibona. Era il primo sabato dopo la “liberazione” del quattro maggio, giorno in cui avevamo riacquistato un po' di libertà di movimento. Dopo un'ora di camminata tranquilla, sono arrivato al parcheggio del Rifugio Dibona e, con un certo stupore, misto a disappunto, ho visto che era pieno di macchine, come in un sabato di luglio. Ci saranno state sessanta o settanta macchine. Però – ho pensato – è giusto così, è una bella giornata di sole e la gente non vedeva l'ora di uscire, di respirare a pieni polmoni e di godere la libertà preclusa per due mesi. La gente in questione era composta certamente da scialpinisti, che erano partiti tutti prestissimo, come consiglia quella pratica sportiva.
Io non avrei desiderato altro che godermi la pace, il silenzio e il panorama che si può godere dal terrazzo del Rifugio, chiuso in questo periodo dell'anno, ma nel terrazzo c'erano già due scialpinisti di Cortina, che bevevano birra al ritorno dalla loro escursione. Li ho salutati e sono salito poco sopra il Dibona, dove mi sono seduto su uno spiazzo di erba secca. Stavo osservando quello che, per me, è il panorama più bello del mondo, che spazia dall'Averau al Nuvolau, poi Mondeval e la Croda da Lago e ancora giù verso le Rocchette e il Pelmo e l'Antelao e il Sorapis e oltre, verso l'infinito dell'anima. Il fondovalle verso San Vito era avvolto da una foschia densa, segno che l'umidità dell'aria stava aumentando, con sicuro peggioramento del tempo nella serata.
Davo le spalle alla parete della Rozes e stavo mangiando un'arancia, quando ho sentito un rombo dietro di me. Un rombo che montava di intensità, impossibile da ignorare. Mi sono girato e dopo qualche secondo ho visto, a destra del Pilastro di Rozes, una nuvola di polvere bianca che prorompeva dalla montagna e si riversava con un fragore assordante giù per una fessura di roccia. La slavina all'inizio era imponente. Sono rimasto ipnotizzato a guardarla e sentirla per parecchio tempo. Avevo il cellulare nello zaino, ma ho pensato che non avrei fatto in tempo a tiralo fuori per filmare quel fenomeno. Pensavo che si sarebbe esaurito in pochi secondi. Invece, dopo più di un minuto che la montagna eruttava quella colata di neve e ghiaccio e roccia, vedendo che non finiva, mi sono deciso a filmarla.
Sul momento non ho associato quell'evento alla presenza umana, anzi ero tranquillo, perché vedevo gli sciatori che, con le loro eleganti serpentine, scendevano dalla forcella Fontananegra e, più a destra, dal grande pendio che scende dal Bus de Tofana. Tra di me ho pensato – è impossibile che là ci sia qualcuno.
La slavina è finita. Ho pensato di camminare ancora un po' e ho imboccato il sentiero 412 che, con leggera discesa, va verso il Passo Falzarego. Dopo pochi minuti che camminavo ho sentito l'elicottero che cominciava a girare in alto. Quello è un elicottero inconfondibile, di colore giallo, che quando ronza attorno alle montagne non segnala mai niente di buono. Ho cominciato ad associare la valanga all'elicottero, ma speravo, anzi ero convinto, che fosse arrivato per un controllo di routine. Sono tornato indietro e mi sono diretto verso la piazzola di atterraggio che sta sopra il Rifugio Dibona. L'elicottero, nel frattempo, era atterrato.
Là ho visto il ragazzo. Stava accovacciato a una decina di metri, con due addetti del Soccorso Alpino che gli parlavano. Le pale dell'elicottero hanno smesso di girare, io mi tenevo un po' distante. La donna che gli stava accanto si è alzata e si è diretta verso l'elicottero. Il ragazzo è rimasto solo. Ho visto che piangeva sommessamente, con la mano che nascondeva gli occhi. I due del Soccorso Alpino gli sono tornati vicino. Lui parlava e piangeva e diceva che suo fratello era stato tirato giù da quel lastrone di ghiaccio e neve. Lui era rimasto più in alto e aveva fatto in tempo a spostarsi verso le rocce, scampando alla morte. In quei momenti ho sperato che non fosse vero, che qualcosa di miracoloso avesse preso suo fratello per i capelli e l'avesse salvato.
Vedevo Mauro Dapoz, il capostazione del Soccorso Alpino, che andava su e giù, avanti e indietro, con una faccia che non prometteva niente di confortante. Sono rimasto là parecchi minuti. L'elicottero è ripartito, ha fatto un giro di perlustrazione lassù. Il ragazzo stava là, seduto o accovacciato, accanto al suo zaino e ai suoi sci. Avrei voluto andargli vicino e mettergli una mano sulla spalla per dirgli - coraggio, ma non l'ho fatto. Non l'ho fatto per pudore, ma anche perché ho pensato che, con quel gesto, avrei certificato la tragedia, che in cuor mio speravo ancora non fosse vera. Quella mano, idealmente, gliela metto adesso, scrivendo queste parole. È una mano di solidarietà e di pena, per lui e per il fratello, Tommaso Redolfi, che ci ha rimesso la vita a ventitré anni.
C'è sempre un elemento di imponderabilità in questi fatti. Imponderabilità che va di pari passo con l'errore umano, con la fatalità o destino, che dir si voglia. Come facevano a sapere, i due fratelli, quando erano in cima alla Tofana di Rozes, che la temperatura dell'aria si era alzata così tanto quella mattina? Perché hanno deciso di scendere a destra, imboccando quel vallone da cui si è staccata la valanga, invece che prendere a sinistra, per il percorso della via normale, quello più sicuro, quello imboccato negli stessi minuti da altri scialpinisti, come mi è stato riferito? Eppure, il giorno prima, su Facebook, era circolato un filmato di un appassionato che faceva vedere la discesa dalla Rozes, forse dalla stesso versante imboccato dai due ragazzi.
Ogni anno, da che ho memoria, succedono fatti di questo genere. Si può ripetere quanto si vuole che la montagna è pericolosa, che lo scialpinismo ha molte variabili, che lo rendono uno sport estremamente affascinante, ma altrettanto pericoloso. Adesso il destino di quel ragazzo si è compiuto e non si può fare altro che provare pietà per lui e per la sua famiglia.
Un carabiniere mi ha detto che dovevo andare via. Mentre scendevo dal Rifugio Dibona non mi sono mai girato a guardare la parete sud della Tofana di Rozes, che per me è la parete più bella del mondo. La montagna stava là, dietro di me. Non era buona né cattiva, non era bella né brutta. Eravamo noi a proiettare su di essa la nostra gioia o il nostro dolore, le nostre aspettative o le nostre frustrazioni. Ma essa è un monolite di roccia e neve, non responsabile del destino degli uomini.