È stato respinto dal Tar del Veneto il ricorso presentato dalla società Breon srl, che chiedeva l’annullamento del provvedimento con il quale l’amministrazione ampezzana ordinava di rimuovere tutte le opere e gli interventi predisposti al cambio di utilizzo dei locali interrati. Questi, infatti, da locali accessori erano stati convertiti a locali ad uso permanente, con tanto di arredi e impianti predisposti a tale scopo.
I FATTI
La società Breon srl ha ottenuto il 23 febbraio 2006 il permesso per la costruzione in via dei Marangoi di un nuovo volume interrato da adibire a magazzini e cantine, ad utilizzo accessorio rispetto ad un fabbricato esistente. Il permesso precisava che i locali fossero illuminati da due pozzi luce. Successivamente alla richiesta del certificato di agibilità dei locali, gli addetti comunali effettuano un sopralluogo – verbalizzato il 5 febbraio 2008 dall’Ufficio Tecnico Comunale - nel quale venivano rilevate difformità rispetto a quanto autorizzato.
Il 10 aprile 2008 parte l’ordinanza per la rimessa in pristino limitatamente a quegli interventi che avrebbero consentito una destinazione permanente del seminterrato oggetto d’intervento. Contro questa ordinanza è stato presentato il ricorso al Tar. Nel provvedimento si paventa il cambio di utilizzo dei locali e la perdita dell’accessorietà rispetto all’edificio principale (che ne avrebbe giustificato l’esistenza) rendendoli autonomamente utilizzabili. L’articolo 43 del Regolamento edilizio in materia di requisiti igienico-sanitari vieta la collocazione di locali ad uso permanente ai piani interrati.
Il ricorso dei proprietari contro il provvedimento del Comune è basato - tra le altre motivazioni - sul fatto che (citiamo) «alla base dei provvedimenti gravati vi sarebbe il convincimento, peraltro espresso in forma dubbiosa, che i locali, assentiti mediante l’originario permesso e le seguenti denunce di inizio attività, potrebbero essere illecitamente utilizzati ad uso permanente (in particolare come case di villeggiatura): ma tale opinione non sarebbe sorretta da alcuna conveniente giustificazione».
Per la società, il Comune si limita «a rilevare genericamente la presenza di impianti e di arredi che sembrerebbero rivolti ad un diverso utilizzo dei locali rispetto a quello autorizzato».
Secondo la Breon, il Comune «avrebbe delineato una rappresentazione non corrispondente alla realtà» e le opere realizzate non consentono «una diversa utilizzazione a carattere permanente »: «i locali non sono destinati ad abitazione, tant’è che non sono mai stati abitati da alcuna persona». Il privato in sostanza nega che vi sia stato in atto una destinazione abitativa permanente.
LA DECISIONE DEL TRIBUNALE
Il Tribunale - nelle sue argomentazioni - parte proprio dal verbale del 5 febbraio 2008 ritenendo le descrizioni veridiche e ponendole a fondamento della decisione.
Il verbale riporta che dall’esame dei grafici allegati alla richiesta di agibilità è evidente come l’intero piano interrato possa essere suddiviso in quattro unità, autonomamente utilizzabili. Ciascuna unità è dotata di un grande locale accessorio pluriuso/lavanderia con pavimentazione in legno, dotazione di citofono, di quadro elettrico, due termosifoni, due prese per il telefono, presa per antenna tv, termostato, cui si aggiungono gli impianti di adduzione dell’acqua ed il condotto di scarico, nonché un impianto per l’aspirazione forzata, mentre l’illuminazione e l’aereazione naturale provengono da uno dei due pozzi luce (ciascuno in comune per due delle quattro unità). Ciascuna unità dispone di due locali adibiti l’uno a guardaroba e l’altro a stireria (o sauna: unità 2 e 4), in buona parte dei quali sono nuovamente presenti termosifoni, prese telefoniche e televisive; inoltre sempre ogni unità include due bagni, dotati di lavabo, doccia, w.c., bidet, impianto imodor (sic).
L’accesso all’immobile avviene per una rampa di scale che conduce al portone di ingresso a sinistra del quale è collocato un citofono con 4 campanelli con targhette (vuote) … Sul corridoio interno si affacciano gli ingressi delle 4 unità, tutti dotati di porta blindata e di campanello.
In conclusione, la relazione sostiene che quanto riscontrato potrebbe essere considerato come un intervento in totale difformità dal permesso di costruire. Il permesso a costruire prevedeva - ricordiamo – magazzini e cantine, a corredo di un altro edificio. Ad avviso del Tribunale, la descrizione in parola e le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza, conducono a condividere le conclusioni del verbale e a giudicare legittima l’ordinanza comunale, poi impugnata dai privati.
Il Tar rappresenta inoltre la situazione anche attraverso il permesso a costruire, che in planimetria individua una pluralità di locali come ripostigli, locale accessorio pluriuso, depositi, magazzini, cantine, guardaroba…
L’ultima planimetria delinea invece quattro distinte unità abitative di circa 60 metri quadrati ciascuna, separate tra loro da muri più spessi di quelli divisori interni a ciascuna di esse, ognuna accessibile da portoncini singoli, tutti affacciati su di un unico corridoio d’accesso. Per il Tar è insignificante che quando il sopralluogo fu effettuato non vi fosse ancora alcun abitante. I Giudici - facendo ancora una volta riferimento alla comune esperienza - affermano che chi possedesse una delle quattro unità in questione, non necessiterebbe di una distinta residenza permanente, di cui la prima fosse mera pertinenza.
Sempre nella sentenza si manifesta che nel provvedimento vi è la volontà di reprimere un abuso, il quale reca in sé il rischio di successive alienazioni a terzi che, pur in difetto di una dichiarazione di agibilità-abitabilità, potrebbero in buona fede ritenere regolare la destinazione abitativa permanente di ciascuna unità, non commerciabile invece sul mercato come abitazione.
NON È UNA VITTORIA DEFINITIVA
Leggendo il dispositivo della sentenza, possono sembrare abbastanza pacifici la ricostruzione della vicenda e il buon senso della decisione, tanto da potersi forse meravigliare se così non fosse stato stabilito.
A parte il possibile ricorso al Consiglio di Stato, non è proprio così. Il Tar infatti ammette «l’indubbia incertezza della controversia, cui non è estranea l’approssimazione con cui il Comune ha seguito il procedimento ». Per questo motivo le spese di lite sono compensate.
Se dunque il Comune canta vittoria - anche perché persegue con caparbietà un indirizzo politico sulle seconde case e sugli abusi ampiamente condiviso dai cittadini - nondimeno deve leggere in coda a questa ennesima sentenza «edilizia» un forte invito al rigore sia nella formulazione dei regolamenti edilizi che nell’applicazione dei procedimenti.
Insomma, la «buona ragione» da sola non basta per vincere nei tribunali; va accompagnata dalla massima professionalità, costanza e puntiglio. Pur nella legittima soddisfazione, impariamo dagli errori passati.
LA DICHIARAZIONE DEL SINDACO FRANCESCHI
Abbiamo inferto un altro duro colpo agli speculatori di turno… perché la sentenza ha sancito in maniera chiara ed inequivocabile come non sia possibile trasformare le cantine in appartamenti.
Il lavoro di verifica messo in campo dall’amministrazione ha dato i frutti sperati e dimostra che mantenendo una linea di assoluta fermezza i risultati alla fine arrivano sempre.