ENNIO ROSSIGNOLI NEL RICORDO DI UN SUO STUDENTE
    

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ENNIO ROSSIGNOLI NEL RICORDO DI UN SUO STUDENTE

Lettere al giornale

15/09/2019

La prima volta che ebbi a che fare con Ennio Rossignoli ero un adolescente di seconda Liceo Scientifico. Ero, eravamo, ragazzi un po’ ingenui e provinciali, il cui provincialismo era dovuto non tanto alle aspirazioni di ognuno di noi, che saremmo poi andati all’università, con risultati notevoli per molti, quanto alla collocazione geografica di Cortina d’Ampezzo, così lontana dai fermenti politici e dai mutamenti sociali e culturali che infiammavano l’Italia dei secondi anni ’70.

Ennio Rossignoli portava, in quel Liceo Statale, una presenza fisica e un’apparenza formale che volevano impressionare noi ragazzi e, nello stesso tempo, introdurre un elemento di eleganza e di buon gusto. Ci faceva lezioni di italiano e di latino sempre in giacca e cravatta, con un alone di profumo che precedeva e seguiva le sue entrate in aula. Era perennemente abbronzato, con una barba colore rosso mattone e grigio, che ne faceva, agli occhi di noi ragazzi, un “vecchio” sapiente, che amava prenderci amabilmente in giro, nonostante avesse solo 45 anni.

Il Liceo Scientifico Statale aveva ancora l’ambizione di formare giovani preparati, maturi e responsabili, era una scuola severa e selettiva, tanto è vero che cominciammo la prima in trenta e arrivammo alla maturità in undici. Ennio Rossignoli divenne il nostro punto di riferimento, culturale ma anche umano, a cui guardavamo con un misto di ammirazione, di spirito di emulazione, ma anche di competizione.

Finito il Liceo, la vita ci fece incrociare in molte e svariate circostanze, con la stima reciproca che cresceva nel tempo, unita a una benevolenza, da parte sua nei miei confronti, che non è mai venuta meno. Nella frequentazione con Ennio Rossignoli ho potuto ascoltare dalla sua voce molti particolari della sua vita, anche intimi e privati. Ad esempio rimasi stupito, quando una volta mi raccontò della fine del suo primo matrimonio, o di quando mi parlava di Milena Milani con l’affetto che lui nutriva per la scrittrice, e io mi chiedevo come facesse, visto che la trovavo insopportabilmente antipatica.

So che fu molto innamorato della sua seconda moglie, Maria Giovanna Coletti, anche lei nostra insegnante di Liceo, da cui ebbe due figli, Matteo e Sabina. Io vidi proprio l’inizio di questa storia d’amore, visto che fummo per alcuni anni vicini di casa. Fin che furono adolescenti, mi parlava spesso dei suoi figli: di Matteo, stranamente, invece che elogiare le qualità intellettuali, che forse dava per scontate, andava fiero delle sue qualità sportive, hockeystiche in particolare, avendo il figlio militato per molti anni nelle giovanili della zona. Ma il cuore gli si scioglieva quando parlava di Sabina, ad esempio di quella volta in cui lei gli chiese di accompagnarla all’orale della maturità, confidandomi che era più emozionato e teso lui della figlia.

Come spesso succede, alcune esperienze della gioventù, trascorsa a Trieste, lo avevano segnato profondamente. Mi raccontò del bombardamento di Trieste del 10 giugno 1944, quando la sua casa venne colpita, e lui, undicenne, riuscì a fuggire tra le fiamme. Con la famiglia fu costretto a sfollare ad Annone Veneto, dove venne coinvolto in episodi della Resistenza, ricordando anche di quando alcuni gerarchi nazisti delle SS presero alloggio nella sua casa. Rientrato a Trieste, alla fine della guerra, fu testimone dell’occupazione titina, con gli episodi di violenza e sopraffazione delle truppe iugoslave e la successiva liberazione da parte degli americani. Era orgoglioso di avere frequentato il Liceo Classico Petrarca (quello in cui insegnava Gillo Dorfles), conseguendo la maturità nel 1951 con la votazione più alta di tutta la città, venendo per questo ricevuto dal Sindaco di Trieste. Imparò a suonare al Conservatorio e fece il pianista di piano bar in un club militare americano, aggregandosi successivamente al gruppo di Lelio Luttazzi. In questi anni maturò anche la sua esperienza culturale, che lo portò a frequentare la libreria di Umberto Saba, dove conobbe il grande poeta triestino e altri nomi di rilievo come Quarantotti Gambini, Carlo Levi, Fulvio Tomizza e Bobi Bazlen. Tra le tante esperienze che fece, talvolta inaspettate, era orgoglioso di avere praticato anche lo sport, essendo stato giocatore di pallanuoto in serie B per alcuni anni.

Dopo la laurea in Archeologia greca, fu assunto alla Pirelli, a Milano, come addetto stampa. Ma si accorse ben presto che la vita della metropoli, e quel lavoro, non facevano per lui. Così rispose “senza grande entusiasmo” ad un annuncio per un lavoro in una scuola privata di Cortina. Era l’Istituto Antonelli. Questo, senza dubbio, fu un altro momento cruciale della sua vita, perché, nonostante non gli piacesse la montagna, la Cortina degli anni ’60 doveva accoglierlo nel migliore di modi. Fu così che entrò nel vivo della vita mondana e sociale di quell’epoca, in una Cortina che viveva dei fasti del periodo post olimpico e del boom economico.

Il lavoro di insegnante al Liceo Statale e all’Istituto Antonelli lo occupò pienamente per molti anni. Nel contempo riuscì, piano piano, a ricavarsi un ruolo di critico letterario e di presentatore di libri, tanto è vero che, dall’inizio degli anni ’90, divenne la voce ufficiale della rassegna estiva “Incontri con l’Autore” all’Hotel Savoia, organizzata dal grande libraio Illario Sovilla. Lo si poteva ascoltare, nel mese di agosto, presentare tutti i personaggi della cultura e della politica, che in quegli anni smaniavano per essere presenti alla rassegna di Sovilla, da Bevilaqua a Gassmann, da Spadolini ad Andreotti, Montanelli, Bettiza, Soavi, Bellow, Albertazzi, Marzotto, Nuvoletti, Ripa di Meana e tanti altri.

Poi si inventò un ruolo di commentatore per varie testate giornalistiche. A TeleCortina tenne una rubrica “Il Punto”, molto seguita negli anni del successo dell’emittente locale. Scrisse per il “Corriere delle Alpi”, per “Voci di Cortina”, per “Il Cadore”, per “Altro e Oltre”. Collaborò con “Una Montagna di libri”. Poi ci furono gli anni del Rotary Club Cadore – Cortina, di cui fu socio fondatore e presidente, e ricordo di molte belle serate trascorse insieme, con lui che aveva ancora voglia di improvvisare brani di jazz al pianoforte.

Lo vedevo sempre camminare con il bastone per Corso Italia, oppure seduto ad un tavolino del Royal, e qualche volta veniva a trovarmi in Biblioteca, dove parlavamo delle nostre vite e di letteratura. Poi, dalla primavera scorsa, non l’ho più visto. Gli ho stretto la mano, con la stima e l’affetto di sempre, il giorno di Ferragosto, in un letto di ospedale, quando ormai era alla fine del suo viaggio. Anche per lui era arrivato il momento di salutarci.

Mauro Polato