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L'INTERVISTA A JEFFREY SWANN, DIRETTORE ARTISTICO DEL FESTIVAL E ACCADEMIA "DINO CIANI"

Luca Dell'Osta - Giacomo Pompanin

01/07/2010
Andare a cena con uno dei più famosi ed eccellenti pianisti al mondo è una di quelle esperienze che ti segnano. Scherzarci assieme, intervistarlo, ascoltare rapito gli aneddoti sul tuo direttore d'orchestra preferito è, se possibile, ancora più bello. È proprio così, Jeffrey Swann. Un tornado, un uomo di rara cultura e sensibilità, e un eccellente pianista. Iniziamo con il gioco della torre. Tra Bach, Mozart e Beethoven non riesce a scegliere chi buttare giù: «Credo che se mi trovassi su una torre con questi, mi butterei di sotto io!», scherza. Preferisce Mozart a Haydn, Chopin a Liszt e Verdi a Vivaldi.
Ma se gli chiedi chi risparmia tra Wagner e Verdi - una specie di lotta titanica fra la cultura italica e quella tedesca - salva senza esitazione l'autore del Ring. «Sono un grande wagneriano», confessa. Io ci rimango male quando, tra i direttori d'orchestra, c'è chi preferisce Bernstein a von Karajan.
Tiene Furtwängler e butta Toscanini, gli piace Maazel e un po' meno Levine. Coi pianisti si scatena: salva Zimerman e butta Sokolov, ed è combattuto tra Kissin e Aškenazi: «Questa è facile perché oggi Aškenazi non suona più, quindi dico lui. Ma trent'anni fa avrei buttato Kissin!».
Bene, maestro, adesso che ci siamo un po' divertiti passiamo a qualcosa di impegnativo. Che ruolo deve avere oggi, nella nostra società sempre più frenetica, la musica classica?
Il ruolo dell'arte nel mondo attuale, sempre più basato sull'immediatezza, è di fornire valori che non si misurino in termini di comodità o utilità, ma che abbiano una pregnanza intrinseca. La musica, in tutto ciò, ha un valore particolare. Ed è forse anche per questo che la musica classica è così in crisi nella nostra epoca.
Siamo di corsa in ogni momento…
Esatto. La gente pensa sempre di più di non avere tempo. Ma la musica si misura in tempo.
Però anche le altre arti sono un po' in crisi.
Questa è una condizione generale. Però le altre arti sono state molto più brave di noi a rinnovarsi e ad adattarsi alle esigenze del mondo moderno: hanno trovato nuovi modi di presentazione e di attrazione senza per questo compromettere i contenuti.
Ma come si relaziona tutto questo con il tempo?
Immaginiamo che ci sia una bella mostra di Matisse: un vero cultore può andare a vederla due ore per cinque volte. Però un'altra persona, magari altrettanto seria rispetto alla prima, può stare al museo anche solo dieci minuti. Sei secondi per ogni quadro, il quale è un qualcosa di plastico che esiste nello spazio. La musica, invece… il Ring dura quindici ore, la VII sinfonia di Beethoven trentacinque minuti. Il tempo nella musica è un elemento integrale, fondamentale. Nel nostro mondo abbiamo la tendenza terribile - anzi, direi terrificante! - di fare il più possibile nel minor tempo, e quindi abbiamo ancora più bisogno della musica che misuri il tempo! Per noi è una grande sfida: uno dei grandi problemi del concerto di oggi è che la gente crede di non avere il tempo necessario per ascoltarlo.
Lei mi fa pensare al libro di Daniel Barenboim: «La musica sveglia il tempo».
Sì, l'ho letto.
Mi soffermavo non tanto sul contenuto del libro quanto sul titolo: «La musica sveglia il tempo». Che ne pensa?
Credo che il maestro Barenboim abbia assolutamente ragione. Il più grande problema, in fondo, è quello di far capire al pubblico che solo nella sala da concerto si può provare l'unica e vera esperienza musicale. Temo che in molti, oggi, non vadano ai concerti giustificando la loro scelta con un «ma tanto ascolto il CD». Il CD risolve il problema del tempo in modo del tutto artificiale e anche dannoso per la musica: suona il telefono e si risponde al telefono mentre il disco va avanti; poi lo si fa tornare indietro, poi si salta un brano...il CD falsifica la musica perchè falsifica il rapporto che c'è fra essa e il tempo.
 E come fare per tornare allo spirito della musica, al suo Geist?
Il concerto deve avere attrazioni che una persona non trova in nessun altro posto. In un certo senso significa che deve essere di moda. Il rock ha risolto questi problemi: andare a un concerto significa abbandonarsi alla frenesia, al movimento… Ho letto recentemente che i Beatles non riuscivano a sentire nemmeno una nota di quello che suonavano, da tanto rumore faceva il pubblico! Noi, come i Beatles, dobbiamo fare in modo che andare a un concerto di musica classica rappresenti una forte attrazione.
Ecco, volevo proprio arrivare a questo punto. Soprattutto i giovani a preferiscono la musica (o meglio, il rumore) di una discoteca… È un problema di educazione all'ascolto, oppure ci sono sensibilità diverse?
Entrambe le cose. Nessuno esce dal seno pronto ad ascoltare e apprezzare il Quartetto in do diesis minore di Beethoven: una certa preparazione musicale ci vuole, ma per lo stesso motivo per cui è necessaria un'infarinatura di storia, di geografia, di scienze. Poi, fra tutte le persone, ne emergerà sicuramente una con il desiderio di ascoltare più musica, e magari di farla.
Oggi ha un ruolo molto importante l'immagine. Non sarà che i giovani si spaventano nel vedere cinquanta individui che si aggirano per una sala da concerto in frac e farfallino?
Questo è un elemento molto importante. Ma il nucleo del problema non è la posizione del direttore d'orchestra o il modo di presentarsi degli orchestrali, bensì il fatto che il concerto è rimasto identico a quello di 75 anni fa. E invece le gallerie d'arte, i musei o il teatro sono radicalmente cambiati. Lo ripeto: i concerti sono rimasti identici: i tipi di programma, gli intervalli, i vestiti, le luci, le posizioni, il rapporto tra chi suona e chi ascolta… tutto uguale. Un giovane, di fronte a un concerto di musica classica, è sicuramente intimidito. C'è un tale formalismo, quasi una paralisi… È ovvio che il nostro giovane si senta come il tizio che entra per la prima volta in chiesa: non sai quando alzarti e quando inginocchiarti… Per chi va a un concerto la prima volta, tutto è così formale e rituale che ci si sente spaesati e intimiditi e non si torna più.
Poco fa lei parlava del mondo di oggi, nel quale tutto è relativo. La musica - parliamo dei grandi capolavori della musica classica, naturalmente - è anch'essa relativa o ha in sé qualcosa di assoluto che non tramonterà mai?
Se mi avessi posto questa domanda quaranta anni fa, non avrei mai creduto che una cosa è bella perché viene considerata tale e non perché ha dei valori intrinseci di bellezza: in quel momento avrei difeso fino al sangue l'idea dell'assoluto. Oggi invece non sono più convinto di questo.
Almeno, non in maniera così intransigente. Per una persona - che possiamo solo compiangere! -, magari Bach non dice niente. Ma l'opinione di questa persona non cambia il valore di Bach, che resta Bach a prescindere che qualcuno lo ami o no. Ma io vado oltre: c'è una distinzione tra artisti che noi amiamo, e artisti che sono grandi sia che li amiamo oppure no.
Credo di aver capito. Io sono un po' allergico a Verdi, però resta comunque un grande (anche se lei preferisce Wagner…).
Esatto. Ma facciamo un altro esempio: io amo Mahler moltissimo. Riconosco però che Mahler è un compositore problematico, e che nel mio cuore lo metto in una posizione molto più alta, diciamo così, di quella che meriterebbe.
Veniamo ora al suo ruolo di concertista. C'è una differenza tra chi fa musica - nel senso che la fa, che la produce, cioè un compositore - e chi invece la interpreta?
Concertista e compositore sono due cose assolutamente diverse. Il comporre è un atto creativo, completamente in astrazione. A un certo punto l'esistenza esterna non esiste più. Il piacere agli altri, per il compositore, non è fondamentale, mentre lo è per chi interpreta.
Il concertista se non piace non vivrà più, non ha più senso di esistere. Certo, anche il compositore ha bisogno del pubblico, ma non ne è conscio nell'atto di creatività. E in questo la musica è anche unica, perché è l'arte che ha assolutamente bisogno di essere interpretata. La relazione però è ancora più particolare: senza di me Beethoven non esiste, o esiste solo come astrazione. Perché la musica possa esistere ha bisogno di un interprete, ed esserlo è una grande limitazione ma al tempo stesso sono un privilegio e una potenza enormi.
Mi fa pensare al direttore d'orchestra, che forse è l'interprete che «interpreta» più degli altri. Ci sono orchestre che suonano senza direttore?
Assolutamente sì. Ci sono ottime orchestre che lo fanno. Ti racconto un aneddoto: una volta assistetti a un masterclass, a New York, con von Karajan. C'era un ragazzo che dirigeva il don Juan di Richard Strauss e a un certo punto Karajan lo fermò dicendo: «Giovanotto, lei cerca di fare tutto per l'orchestra. Ma deve lasciarla suonare, non può farlo per loro. Muove troppo le braccia e le mani… la cosa più importante per un direttore è il contatto con gli occhi». E l'altro gli rispose: «Maestro, ma lei tante volte dirige con gli occhi chiusi».Tieni presente che l'atmosfera era un po' ostile, perché Karajan non era molto amato a New York, soprattutto per la vicenda dei nazisti, visto che a New York ci sono molti ebrei. E allora ci fu un momento di tensione. Ma la risposta di Karajan fu bella e molto giusta. Disse: «Al concerto il direttore serve per le emergenze, per ispirare, e per creare l'immagine al pubblico. Il vero lavoro, invece, il direttore d'orchestra lo fa durante le prove. E io alle prove ho gli occhi sempre ben aperti!».
Grande Karajan! Lei ha girato il mondo. Ci sono ancora culture e sensibilità differenti, oppure si assiste anche a una globalizzazione musicale?
Sì, c'è ancora qualche differenza, ma stanno scomparendo. Nel bene o nel male. Per esempio, cinquant'anni fa si riconoscevano un'orchestra russa, una tedesca, una italiana, una inglese in trenta secondi o anche meno. Oggi diventa sempre più difficile. Invece le differenze tra i vari tipi di pubblico sono ancora accentuate.
A Milano c'è un pubblico molto snob che quasi non batte le mani, poi ci sono quelli che vanno a teatro solo per il gusto di fare le ovazioni…
E la critica? La stampa?
Ci sono ancora pregiudizi… Una volta mi definirono un «cow boy del wilde west», solo perché sono americano dell'Arizona.
Qualche battuta sul Festival Ciani, ora. Come mai un festival a Cortina?
Ti rispondo con una domanda. Come mai, nel 2006, non c'era un festival di musica classica a Cortina? Comunque, partiamo da tre elementi: il primo è che l'associazione Dino Ciani, che fu creata dopo la morte di Dino per fare qualcosa in sua memoria, aveva sospeso le attività principali dal momento che la Scala era chiusa per restauri. In secondo luogo, a Cortina era quasi terminata la costruzione dell'Alexander Hall. E, poi, i Ciani hanno una casa qui e Dino aveva amato molto Cortina, ed era molto conosciuto. Tutto sommato lo scopo principale dell'associazione è di aiutare e incoraggiare i giovani pianisti.
E perché Jeffrey Swann come direttore artistico?
In parte perché sono il vincitore del primo concorso, che è stato per me importante anche per la mia carriera successiva; poi era giusto avere uno straniero affinché il festival assumesse una connotazione internazionale. Ma uno straniero che parlasse italiano, che conoscesse l'Italia, non solo
 dal punto di vista musicale ma anche sociale.
Andiamo un secondo dietro le quinte. Che cosa fa il direttore artistico?
Innanzitutto organizza i programmi, sceglie e invita gli artisti, e cerca di trovare soluzioni artisticamente ed economicamente ottime. Io poi intendo il mio ruolo anche per attirare l'attenzione di eventuali sponsor, cercando di coinvolgerli, di attirarli, di sedurli. Il direttore artistico per molti aspetti è l'immagine esterna del festival. In una piccola città come Cortina è importante che tutti conoscano e riconoscano il direttore del festival. Si crea così la coscienza del festival, che appartiene a Cortina. Per noi è molto importante avere un base turistica che viene qui appositamente per ascoltare i nostri concerti - è indispensabile - ma è altrettanto indispensabile avere l'appoggio completo di Cortina stessa e dei suoi abitanti.
C'è questo riscontro da parte della gente del posto?
Sì, sempre di più. Abbiamo iniziato anche una proficua collaborazione con le scuole.
Ora dico un'eresia. Arriveremo ad avere una Bayreuth ampezzana? Confesso che la cosa mi spaventa un po'.
No, non sarebbe possibile… Bayreuth ha un carattere così unico! Ma un festival ai livelli di Spoleto, Merano, Verbier, questo sì. Tenendo sempre presente che il cuore del festival sono i giovani.