PARLA GIORGIO BONOMO, INSEGNANTE ALLA SCUOLA MEDIA ANNESSA
    

Ricerca avanzata

Tutte queste parole:
Frase esatta:
    
logo

Ricerca sul sito

Ricerca normale (una di queste parole):
Tutte queste parole:
Frase esatta:

PARLA GIORGIO BONOMO, INSEGNANTE ALLA SCUOLA MEDIA ANNESSA

Luca Dell'Osta - Giacomo Pompanin

07/02/2010
Spesso le idee si accendono l'una con l'altra, come scintille elettriche» (F. Engels).Abbiamo pensato al filosofo Friedrich Engels ascoltando Giorgio Bonomo, una laurea in filosofia e molti anni di insegnamento nelle scuole medie alle spalle. Siamo sicuri che anche voi, leggendo questa nostra conversazione, sentirete una scossa. Magari leggera, ma pur sempre una scossa.
L'età critica dell'adolescenza. Lei lavora quotidianamente a contatto con questa realtà. Qual è la sua esperienza, e, ci aiuti a capire, c'è differenza tra il vivere questo periodo nel nostro paese oppure in un altro luogo?
L'adolescenza per me è quell'età in cui tutto si deve costruire, ma si DEVE costruire! È un imperativo che obbliga, e viene da ciò che il mondo intorno a te si aspetta; naturalmente, la cosa presuppone un'infinità di fattori che interagiscono tra loro; ma è da questa complessità che noi ci aspettiamo che l'individuo possa diventare un cittadino. In più, questa è l'età in cui il mondo lo si legge come un mondo che altri ci hanno costruito intorno, e un mondo dove bisogna, sgomitando, ricavare il posto per dire la propria.
È comunque una sfida interessante, questa.
Sì, lo è. Ma oggi mi sembra di notare che è difficile trovare adolescenti con piena consapevolezza nel porsi di fronte al problema di poter essere diversi dal mondo che li circonda. È molto più facile trovare ragazzini passivi, o comunque non reattivi.
Ma Cortina come si pone in tutto ciò?
Tralasciando il piano psicologico, per il quale «tutto il mondo è paese», sul piano sociale forse sì, a Cortina ci sono dinamiche particolari. Faccio un esempio: nel mondo degli adolescenti un fattore determinante è il gruppo dei pari, al quale si attribuisce la massima attendibilità. Una città, da questo punto di vista, offre spazi e modalità molto variegate rispetto a quante ne possa dare Cortina, che in fin dei conti non dà granché. È vero però che anche a Cortina i gruppi di giovani trovano il modo di incontrarsi, di scambiarsi, di autodefinirsi, di rassicurarsi, di condizionarsi e via discorrendo.
Qui lo sport fa da padrone, con tutte le ricchezze e le povertà che questo può portare.
Veniamo al Suo mestiere di insegnante. Si parla tante volte della scuola media come l'anello debole dell'istruzione. Ma dal momento che risponde a quel periodo di cui abbiamo parlato, rappresenta una tappa fondamentale.
Uno psicologo con cui parlavo tempo addietro diceva che dagli 11 ai 14 anni bisognerebbe che nella scuola non si facesse scuola! Perché non c'è possibilità, con tutto quello che hanno da gestire i ragazzini a quest'età, di governare in maniera dignitosa processi di apprendimento. Poi, di fatto, processi di apprendimento ne avvengono sempre, ma affiancarsi alla modificazione di queste identità, per determinare la direzione della loro evoluzione, è probabilmente una pia illusione.
Forse è un po' estremista, come posizione.
Lo è, senza alcun dubbio. Altrimenti mi sarei già licenziato… Penso infatti che ci siano dei concetti fondamentali da tener presenti: per esempio, il costruire e l'evolvere delle identità. Si tratta di ascoltare e riconoscere i buchi che si sono formati nelle famiglie, ed è un lavoro fondamentale.
Senza un occhio costante sugli squilibri di un ragazzino, non vai da nessuna parte. Questo per dire che costante dev'essere la relazione con le famiglie e con gli adolescenti stessi. E vuole anche dire capacità di ascolto e di osservazione che a volte richiederebbe abilità che nessuno di noi può sognarsi di avere. E non parlo solo di capacità tecniche, ma anche e soprattutto di disponibilità all'ascolto.
Sembra che si metta in secondo piano l'apprendimento, però.
Gli apprendimenti - sono sempre più convinto di ciò - non sono affatto in un altro posto rispetto alla gestione delle questioni affettive. Non si apprende fuori da sé. Si apprende dentro di sé. È un gioco di specchi e di relazioni, l'apprendimento. E quando tu cali una nozione senza preoccuparti di dove va a cadere, beh, non stai facendo l'insegnante. La forza della nostra professionalità sta qui: nella continua rilettura dei processi in atto, e quindi delle individualità come si stanno evolvendo.
Sembra quindi che il «porsi domande », in tutto ciò, sia fondamentale. Noi siamo i soliti campanilisti, e vogliamo vedere la teoria applicata alla pratica. Cortina si interroga? Su questo e su altro, naturalmente…
Mi è difficile rispondere: ormai non vivo più in altri posti da troppo tempo. Chissà com'è cambiata Verona, che è la mia città… Certo, io leggo i giornali, cerco di intuire quello che succede in giro, leggo libri, ma… è molto difficile. Io trovo tuttavia che queste dinamiche di perdita della capacità o della voglia di interrogarsi siano molto generalizzate. Una volta mi era capitato di pensare che - in una maniera un po' drastica - il pensiero fosse figlio del bisogno. E allora vorrebbe dire che in un posto dove di bisogno effettivo non ce n'è, non si pensa. Ma non è così, perché il bisogno può non essere la sola necessità di procurarsi il cibo! Può anche essere, per esempio, il bisogno di dirti chi sei. E se lo avverti, è un tuo bisogno, e il pensiero è figlio anche di questo.
Torniamo quindi alla necessità di fare gruppo.
Certo! L'effetto del gruppo qual è? Ti rassicura. Io ci sono, in quanto appartengo al gruppo. Facciamo attenzione alle parole: il gruppo mi comprende, quindi io ci sono. Questa comunque è una caratteristica di tutta la vita. Se uno tiene dentro di sé quello che pensa, a un certo punto dà di matto: se non ti viene riconosciuto che ha un senso ciò che tu ritieni avere un senso, tu non glielo puoi più attribuire.
È quasi un'eresia, questa, nel mondo di oggi.
Siamo in un mondo dove sempre di più si tende a vivere in maniera sempre meno dotata di senso e in maniera isolata; è un mondo dove la rassicurazione viene meno, e dove è anche più facile prendere certe tangenti, certe scorciatoie, che sono già state micidiali nel corso della storia. Quando la paura del diverso fa novanta, ovvero quando sei stato troppo solo per non avere abbastanza rassicurazione e per vedere chiunque ti sta intorno come un nemico perché ti porta via pezzi di territorio, cioè pezzi di te, allora non ti identifichi più, e lo vuoi morto.
Ecco, siamo arrivati al solito punto! La paura del diverso… c'è?
Cavoli se c'è!
Ok, scontato. Passo successivo: perché?
Perché c'è? Trovo che l'origine della questione sia la rarefazione delle relazioni. Mi spiego: se la mia relazione con gli altri viene meno, oppure diminuisce sempre più di spessore, allora io trovo meno occasioni per trovare rassicurazione e rinforzo, e quindi per dirmi con tutta la forza necessaria che ci sono e chi sono, e avrò sempre maggiori perplessità e insicurezze. Da questo segue il bisogno di affermazione. Alla fine, l'individuo diventa debole. Diventa malato nel senso dell'identità che perde forza. E quindi diventerà ancora meno capace di costruire senso, e diventerà sempre più passivo, e sempre più impaurito. Terrorizzato, delle volte. Dietro a chi dice «questo viene qua a rubarci il lavoro» si na nascondono una forte insicurezza, instabilità, una mancata coscienza di sé, una mancata riflessione in un percorso di vita che porta ad essere esposti ai quattro venti. Se quei quattro venti lì sono quelli che qualcuno infarcisce di populismo, si arriva alle tragedie storiche che abbiamo vissuto per tutto il '900.
Questo però è stato accompagnato anche da un tentativo di rafforzare le identità territoriali, e lo si può vedere anche in questo momento in Italia senza scomodare nazismo e fascismo. Siamo alla presenza di una ricerca di identità nel senso deteriore del termine?
Non c'è dubbio. Bisogna distinguere l'identità che «comprende» da quella che «esclude». Prendiamo ad esempio le lingue minoritarie. Se tu dici: questa diversità è una ricchezza, allora vuol dire desiderare che questa minoranza costruisca una quantità sempre maggiore di relazioni con il resto del tessuto sociale, perché solo così è una ricchezza a tutti gli effetti. Da sola non è nulla. L'altro atteggiamento è quello dell'esclusione. Cioè, io appartengo a una minoranza, e questa minoranza non deve confondersi con il resto, perché altrimenti non si riconosce più, e dunque deve isolarsi. Fate voi… io ho le mie opinioni su come si stia orientando il discorso sulla ladinità e sulle minoranze linguistiche quassù, e mi pare abbastanza chiaro che sia più esclusivo che comprendente.