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PARLA STEFANIA ZARDINI LACEDELLI, PIANISTA E APPASSIONATA DI MUSICA

Luca Dell'Osta - Giacomo Pompanin

01/04/2010
Scrisse un giorno il filosofo Friedrich Nietzsche: «Senza musica, la vita sarebbe un errore». Anche noi abbiamo pensato a qualcosa del genere, dopo la chiacchierata con Stefania Zardini Lacedelli, studentessa del conservatorio di Venezia, pianista e appassionata di musica, da poco diventata anche consigliere dell'Associazione Amici del Festival Dino Ciani. Speriamo sia anche per voi un piacevole intermezzo.
Strumenti musicali antichi a raccolta, già a Cortina e oggi in Cadore?
Trovo interessante che la mostra stia quasi diventando itinerante, anche se nessuno l'aveva programmato: prima a Cortina e poi, appunto, a Pieve. Interessante perché si crea un legame culturale intorno a una manifestazione, che finisce per unire due realtà…
Musica e territorio oppure Cortina e Cadore?
…Cortina e Cadore. Molti - tra cui i curatori - si sono preoccupati di un possibile conflitto tra i due paesi per muoversi con prudenza. In realtà secondo me è bello che la mostra sia itinerante e che abbia senso nel tempo e nello spazio: alla fine sono state esperienze che si sono completate a vicenda. In Cadore sta riscuotendo molto successo l'affluenza delle scuole, forse anche grazie alla posizione favorevole di Pieve nel rivolgersi ad un bacino di utenti più ampio.
Stai dicendo che l'interesse dal punto di vista giovanile/scolastico è molto più accentuato in Cadore piuttosto che qui?
Non so se è molto più accentuato… qui le scuole hanno comunque risposto. Però lì non solo Pieve è intervenuta, ma tutto il circondario. C'è forse un sistema di coordinamento tra i paesi che è diverso. È come se si fosse attivata una rete.
L'idea di una mostra di strumenti musicali antichi è stata quantomeno… originale!
Proprio qui volevo arrivare. Dobbiamo capire perché occuparci di un tal genere di strumenti, in un'epoca in cui i ragazzi dovrebbero essere attirati dai suoni dei loro tempi. E dobbiamo anche capire quale sia il progetto dei curatori, Elena Modena e Ilario Gregoletto, che negli anni hanno raccolto strumenti di epoca medievale e rinascimentale. Come dite voi, all'inizio l'idea può spiazzare.
In effetti… E dunque, perché invece dovrebbe essere attuale?
Perché nel Medioevo era molto importante la dimensione improvvisativa del suonare. Lo strumentista era innanzitutto cantante, e lo strumento, grazie anche alla sua misura ridotta, era più vicino al corpo dell'esecutore, quasi parte di esso, e vibrava assieme a lui. Non è come parlare di un pianoforte, che potrebbe già essere di per sé - l'oggetto - un protagonista del concerto. Inoltre, l'improvvisazione è essenziale: riporta l'esecutore a giocare con la musica, elemento molto importante per noi oggi che spesso siamo incatenati alla scrittura. Quest'ultima avvicina ai capolavori, crea un contatto con il passato, sicuramente…
Quindi diciamo un passaggio obbligato e doveroso…
…sì, certo, ma spesso è estremamente vincolante. La dimensione improvvisativa invece ti dà il diritto di essere il creatore, e quindi di provare cose legate al momento estemporaneo; e la musica è sempre legata a un momento estemporaneo. Tutti noi di fronte alla musica preferiremmo giocare, piuttosto che imparare nozioni.
Poi, certo, la «teoria» va studiata, ma in un secondo momento; prima dobbiamo sperimentare, senza sentirci limitati quando abbiamo di fronte il nostro strumento.
Vuoi dire che abbiamo sbagliato approccio o che siamo stati condizionati dall'accademismo?
Sì, sicuramente siamo stati condizionati, ma non c'è un modo sbagliato o giusto di considerare l'aspetto musicale, questo no. Semplicemente se più persone manifestano l'esigenza, come io ho notato, di andare in una certa direzione, allora forse c'è una tendenza e bisogna assecondarla.
In questi ultimi anni c'è sempre di più un desiderio di staccarsi da questo condizionamento, e di cercare una dimensione sempre più libera della musica.
È vero che bisogna avere dei particolari strumenti per capire la musica? Si sente spesso dire: «Io non vengo ai concerti perché non me ne intendo…»!
Non credo sia una questione di «competenza»: esistono molte connessioni che si possono mettere in moto - parti emozionali, sensoriali, cognitive del nostro cervello. Un musicista avrà, ad esempio, la parte cognitiva molto attenta: analizza ciò che ascolta. Ma chi non ha competenze musicali mette in atto altre connessioni: ricorda di un momento particolare della sua vita, una persona, un sentimento. Perché i suoni, sappiamo, hanno una fortissima capacità evocativa, che crea un percorso creativo individuale. Bisognerebbe che si capisse che ascoltare musica non è solamente andare a sentire un interprete, ma è ben di più: è vivere un'esperienza collettiva e nello stesso tempo affrontare un percorso individuale, senza dubbio aprendosi maggiormente alla dimensione sonora di ciò che si ascolta.
Ma il problema dove sta? Noi vogliamo soluzioni, vogliamo riempire le sale da concerto!
Magari fosse tutto semplice e immediato. Temo che un problema sia che siamo abituati a pensare con l'occhio. E l'occhio è analitico, come il ragionamento. Mentre l'orecchio, può essere, sì, analitico, ma tendenzialmente non lo è. Voglio dire che ormai tutto il mondo della comunicazione - pensiamo a case discografiche, al commerciale, alla cultura dei mass media - è legato all'immagine: questo non aiuta.
E siamo giunti alla domanda di sempre - riferendoci a quanto dicevi prima; secondo te bisognerebbe essere educati alla musica, anche per abbattere quel timore reverenziale di cui parlavi prima, oppure è un'esperienza che rimane circoscritta a chi se ne occupa?
Temo che qui si tirino in ballo un po' troppe dimensioni, ognuna molto complessa di per sé: pensiamo solo al sensoriale e all'intellettuale, che sono due sfere contrapposte che la musica mette in interazione. L'atto meccanico e fenomeno fisico percepibile dal corpo, da una parte, e l'atto intellettuale, nel senso di musica come pensiero, dall'altra. Poi, è importantissima la libertà creativa di ognuno di noi di ascoltare, di immaginare, di elaborare: aprirsi all'ascolto nel senso di diventare noi i protagonisti e non la musica. Forse questo può aiutare le persone.
Sappiamo che per il Festival Ciani ti stai occupando di un progetto piuttosto ambizioso…
Il Festival punta molto sull'apertura verso i giovani, creando un'immagine un po' diversa da quella che è la Cortina degli ultimi anni, molto snob e autoreferenziale. Va visto come un'opportunità per aprirsi al mondo della musica e alle forme d'arte. In particolare quest'anno, con il progetto dei Monti Pallidi, proveremo a valorizzare anche l'aspetto teatrale, utilizzando l'Alexander Hall in modo scenico. E, importantissimo, questo spettacolo si inserisce in un percorso, quello del Festival, che è comunque una volontà di creare una stagione. Anche qui, avere un programma, un percorso condiviso, è, direi, essenziale.
E qui torniamo al tanto discusso turismo culturale… Per te è un'utopia?
All'università insegnano che è in passivo, purtroppo. Il dirigente deve mettere in considerazione che investire sul teatro o sulla musica al massimo ti porta in pari. Ma è ovviamente un altro tipo di guadagno che va cercato: una crescita dal punto di vista umano e personale, e una crescita della collettività. E poi un aiuto, che va pensato però sul lungo termine, mai sulla breve distanza. Non bisogna metterlo nel pacchetto della convenienza…