PARLA LA MAESTRA ELEMENTARE VANDA DE NES LACEDELLI
    

Ricerca avanzata

Tutte queste parole:
Frase esatta:
    
logo

Ricerca sul sito

Ricerca normale (una di queste parole):
Tutte queste parole:
Frase esatta:

PARLA LA MAESTRA ELEMENTARE VANDA DE NES LACEDELLI

Luca Dell'Osta - Giacomo Pompanin

01/02/2010
Tè e pasticcini, questa volta. Siamo arrivati finalmente all'intento primario di questo spazio: catturare e svelare un pensiero informale per aiutare a riflettere, sperando che vi possiate sentire a vostro agio come all'ora della merenda. Oggi a casa di Vanda De Nes Lacedelli - la maestra elementare che molti ricorderanno - per riportare ancora una volta l'attenzione sull'importanza dell'educazione nella formazione dell'individuo. Così, proprio davanti ad una tazza d'acqua bollente, ascoltiamo la limpida intelligenza e il profondo credo dell'affezionata maestra. Sorseggiate con calma.
Discorso di Pericle agli ateniesi, Storie, Tucidide, libro primo: «Amiamo il bello senza esagerazione e la cultura senza mollezza ». Probabilmente si può fare una riflessione su questo pensiero un po'… datato!
Allora… il concetto di bello ha avuto talmente tante variazioni nel tempo, che è impossibile considerarlo come assoluto: va amato senza pensare di avere un unico criterio per leggerlo. In fondo, non esiste solo un criterio estetico.
E la cultura senza mollezza?
La cultura senza mollezza… La cultura è un termine vasto, talmente vasto che viene spesso
usato in modo molto ristretto, molto selettivo: scuole che hai frequentato, ambiente in cui ti trovi, famiglia da cui provieni… Talvolta queste determinazioni sono restrittive per definire una persona. Farò un esempio, così è più chiaro: mi è capitato di parlare con persone che, pur non avendo alcun titolo di studio, sono riuscite ad aprire i miei orizzonti, a farmi cogliere un ulteriore punto di vista, ad andare al di là del contingente, o a regalare un'osservazione acuta; e magari lo hanno fatto molto meglio rispetto ad altri, se vogliamo, più acculturati sotto l'aspetto «classico». Secondo me, quindi, la mollezza è proprio l'essere sgombri da pregiudizi quando si parla di cultura, non dimenticando che si tratta soprattutto di confronto e di condivisione.
Parliamo di sete di sapere. Parafrasando il dottor Wagner nel Faust di Goethe: «Certo so molto, ma vorrei sapere di più».
La spinta al sapere e ad allargare la propria conoscenza è una cosa normale…
…ma questa tensione metafisica ci deve essere? O finisce, proiettata sul lungo periodo, per logorare una persona?
Sarebbe un guaio se non ci fosse. Quando lavoravo ho pensato spesso a quale fosse lo scopo di
ciò che facevo: credo si debba pensare a un bambino che si interroga e far sì che possa porsi diecimila e continue domande. La scuola però non può dare risposta a tutto; deve solo dirti qual è la strada. Dopo sei tu a doverla percorrere, e le domande devi portele tu; l'insegnante riesce solo a indicare dove poter trovare qualcuno che può aiutarti per la risposta, suggerirti il libro che può fare al
tuo caso. Ma non di più, e non tutto! Per tornare a forme banali: si continua a discutere di ritorno all'analfabetismo, che in Italia si legge poco, che non si arriva a decifrare concetti elementari… È a questo punto che mi domando: la scuola può aver alfabetizzato, ma fino a che punto ha dato gli strumenti? Ha sollecitato abbastanza la capacità di continuare a operare da se stessi?
La lettura - restando nell'argomento - ha un ruolo fondamentale, necessario, oppure è accessoria e non essenziale?
Premessa: per me la lettura è stata una passione. Mi rendo conto che quando parlo di libri posso arrivare a pensare che abbiano una vita, perché in certi momenti ti aiutano. Oltretutto, l'altro giorno leggevo un articolo in cui dicevano che chi legge non opera solo un lavoro di lettura, di decodificazione di un testo, ma fa scattare inconsciamente meccanismi di immedesimazione che aiutano a maturare e a decantare certe emozioni. Così penso ai ragazzi, che si trovano a governare emozioni molto forti - che appartengono alla loro età, ma che non sanno come dominare - e a quanto la lettura potrebbe aiutarli a imparare a riconoscerle, a nominarle, a definirle. E quindi, in fase successiva, a controllarle, perché le hanno già vissute. E con questo chiudo la premessa.
Veniamo quindi al ruolo della lettura.
Essa ha una funzione fondamentale proprio per il singolo. E poi, consentiamoci una battuta: la lettura è anche un'attività trasversale, per cui leggere solo le istruzioni per far funzionare il fornello a gas, potrebbe salvarti la vita anche in senso primario…
Si parlava di analfabetismo, della scarsa lettura. Grandi catastrofi. Condizione generale che ne risulta: c'è chi nota spesso una certa degenerazione della società. Senza indagarne troppo i motivi, ci piacerebbe sapere come vivono tutto questo - ammesso che sia realtà - i bambini. Come si riflette sull'infanzia il cambiamento della società?
Mah… mi verrebbe da dire che i bambini, proprio perché non hanno ancora condizionamenti così forti, sono soggetti privilegiati, soggetti che potrebbero preludere ad altri cambiamenti. Sicuramente ci credo. Ma è difficilissimo. Il rapporto di amicizia, nella scuola, può nascere tra tutte le categorie, tra tutti i gruppi di bambini. Ma come si inserirà, in questo, la famiglia? Chi avrà una situazione sociale negativa sarà così facilmente accolto in un altro gruppo? I bambini poi hanno bisogno di una continua approvazione da parte degli adulti, e comportarsi come vogliono i genitori è il metodo più facile per ottenerla. Ma limitarsi alla famiglia è riduttivo: ci sono altre applicazioni vastissime. Io rompevo l'anima ai miei alunni tentando di far capire loro che quando si trovavano uno contro tre c'era qualcosa che non stava funzionando. State esercitando una violenza, una forza, non si fa, dicevo. Ma mi domando: che peso assume questa osservazione? Scattano infiniti altri meccanismi, forse altrettanto importanti e legittimi: la competizione, la paura dell'inferiorità, il bisogno di sopraffazione; a volte semplicemente per affermare se stessi e non necessariamente per cattiveria o egoismo.
Vogliamo ascoltare qualcosa tratto dal libro di cui abbiamo parlato prima - discussione non riportata, ndr - quando ci riferivamo a Cime inviolate e valli sconosciute di Amelia B. Edwards.
Oh, sì, ci sono passi fantastici, e descrizioni dei nostri luoghi, delle nostre usanze come fossero riti tribali… Eppure dobbiamo pensare alla scrittrice come a una donna evoluta, proveniente dall'opulenta società inglese di fine Ottocento, con curiosità e spinta culturale. Ecco, ho trovato, si parla della celebrazione di un matrimonio in Ampezzo: «Un gesto meno consueto, ma simbolico: lo sposo trae del denaro di tasca e lo offre alla sposa. Poi, a conclusione della cerimonia nuziale, la coppia viene benedetta con un'abbondante spruzzata di acqua santa. Segue ora la lunga Messa che, come ieri, è quella delle grandi festività, con la banda e l'organo. I due giovani con il cero in mano, sono sempre inginocchiati davanti all'altare, e solamente quando la Messa è finita e anche i fedeli si sono allontanati, lo sposo, lui solo, si alza e, con aria distaccata, esce dalla Chiesa lasciando la sua sposa ancora inginocchiata. In rispetto di un'usanza locale alquanto strana, egli, senza mai voltarsi e senza un cenno di attenzione alla donna che è appena diventata sua moglie, si reca in piazza a giocare alle bocce. Intanto è ancor la madre che si accosta alla sposa, la accompagna fuori dalla chiesa e, di nuovo, alla casa dove finora hanno vissuto insieme. Qui la giovane si toglie l'abito indossato per le nozze e riveste quello modesto di tutti i giorni. In Tirolo dunque l'etichetta impone alle coppie appena congiunte in matrimonio di evitarsi almeno durante il primo giorno: infatti in quella giornata, i due giovani non furono più visti insieme.»
Bello, molto interessante. Uno degli argomenti che più spesso abbiamo incontrato è stata - appunto - la paura dell'estraneo. Come si può cercare fin dall'infanzia di limitare questo timore?
L'omologazione può dare sicurezza, il confrontarsi invece… Ma la ricchezza sta nella diversità! Dobbiamo confermare le nostre identità: a scuola affrontavamo le ricerche sul passato tentando di scoprire la storia che c'è alle spalle dell'uovo, dello zucchero, della farina; capire da dove arrivavano, e quanto era più dura la vita un tempo. Conoscere la nostra identità è importante, è fondamentale, ma
concediamo anche agli altri di averne una!
Guglielmo Ferrero, parlando del Congresso di Vienna, sosteneva che la rivoluzione francese e la dominazione napoleonica avessero portato con sé un'ondata di paura. I sovrani della restaurazione avevano paura della paura, e volevano tornare a un sistema ormai consolidato che potesse garantire delle certezze. Volevano restaurare, appunto. Si può trovare un paragone anche nella società attuale?
Altroché! Ricordo un cartone animato polacco che avevo visto da bambina, utile adesso per
esemplificare: un mago aveva costruito per sua figlia un villaggio in una bottiglia; lei, lì rinchiusa,
si sentiva prigioniera, limitata, ma un po' alla volta si abitua e quando ad un certo punto il mago decide di togliere il tappo alla bottiglia, lei non ha nessuna intenzione di uscirne.
E sul fatto che ci sia, per paura, il bisogno di ricerca e di ritrovare l'identità?
Sono tutte armi a doppio taglio. Finché con identità intendiamo capire chi si è, da dove si viene,
cosa c'è stato alle nostre spalle, tutto il lavoro svolto a Cortina in questi anni, è un'attività meravigliosa.
Si capisce quanto la storia non sia solo storia, ma anche poesia, capacità di capire relazioni
sociali… Credo davvero che la ricerca, dalla microstoria alla macrostoria, sia l'unico modo che abbiamo per capire chi siamo. Dall'altro lato, invece, usare queste scoperte per convalidare esclusioni, per alzare steccati, per aprire divisioni, per stabilire priorità di qualcuno su qualcun altro, creando una gerarchia sociale, credo sia fortemente negativo e non lo condivido nel modo più assoluto. Sempre parlando di società impaurita, che ruolo deve avere in tutto ciò la scuola, o comunque la formazione di un individuo in generale? Domanda che ha scosso le coscienze e percorso l'intera storia dell'uomo! Non so rispondere, è una domanda troppo grossa. Penso però alla grande collaborazione che ho sempre avuto quando si trattava di organizzare le attività. Una volta ho scritto che la scuola non è un edificio, ma è un intero paese. E ci credo ancora fermamente. Intanto il suo ruolo è quello di essere inserita in un certo luogo, di avere a che fare con le altre istituzioni, di scambiarsi scelte, decisioni e anche traguardi futuri, e perché no, obiettivi da raggiungere. Senza però ritenere di essere l'unico posto formativo, perché nella vita ci sono anche altre occasioni, magari con tempi minori ma di altrettanto valore. La scuola non deve diventare un'istituzione totalizzante.
E dunque, per concludere, torniamo al discorso di partenza:
aprire strade.
Esatto. Da un lato penso che trovarsi a un bivio, nel corso della vita, sia fondamentale; la scelta magari si rivelerà positiva, magari no. Cambiando prospettiva, d'altra parte, credo che la scuola sia una delle tante «agenzie» - la parola è un po' brutta! - che devono far crescere un individuo. Certo, la scuola ha una sua priorità, ma legata solamente al fatto che dura di più nel tempo; ma questo aumenta la sua responsabilità, non l'importanza…