Solitudini intatte, improvvisi scoscendimenti che tagliano il paesaggio frastagliandone lo scenario potente: una natura emozionante che intimidisce, scoprendo a ogni istante uno scorcio di nuova bellezza. Così dovettero apparire le Dolomiti d'Ampezzo ai viaggiatori che vi giungevano percorrendo le ardue vie di una montagna ancora sconosciuta.
Erano gli anni delle curiosità illuministiche, del Grand Tour settecentesco, e nel secolo dopo, dell'esotismo sentimentale dei romantici, che andavano cercando lontano e ovunque l'anima del mondo; ma erano anche i tempi in cui gli uomini si convincevano delle “magnifiche sorti e progressive” a loro riservate e che la scienza avrebbe inevitabilmente realizzato.
Vennero le strade, le ferrovie, la “strada postale dell'Impero”, e più tardi la via delle Dolomiti; negli anni si succedettero l'illuminazione pubblica a lanterne, il telegrafo, la farmacia, la cooperativa, i primi approcci di un timido turismo. Al tramonto dell'Ottocento Cortina è ancora un grumo di case raccolte intorno alla chiesa o sparse sulle morbide pendici della conca: stalle, fienili, arfe da essicazione, orti di casa, grande respiro dei prati fino ai margini del bosco, il paesaggio di una comunità contadina. E infatti l'agricoltura, con la cura del bestiame e l'alternativa di un artigianato del ferro e delle filigrane costituisce l'apporto di una antica economia.
Finché le Dolomiti ampezzane non furono scoperte dagli alpinisti, gli scalatori della “prima maniera”, la salita più facile verso la cima. Così, quando nel 1877 Paolo Grohmann pubblicò a Vienna il suo “Wanderungen in den Dolomiten”, il libro delle sue esperienze con le guide locali, Cortina era ormai avviata a diventare uno dei luoghi prediletti dagli amanti della montagna. Fu allora che agli inizi del nuovo secolo un piccolo popolo di agricoltori e di artigiani vissuti nella dura familiarità con la roccia cominciò a trasformarsi in una comunità di imprenditori dell'ospitalità, capaci di anticipare il futuro, intuendone le forme e predisponendone l'organizzazione.
Dopo le guide, i maestri dell'arrampicata e dello sci primitivo e di concerto con loro, vennero dunque gli albergatori: con sensibilità sociale, intraprendenza, coraggio, furono essi a capire le possibilità di una diversa economia, da fondarsi sulla valorizzazione comunicativa di una natura straordinaria e al contempo, sull'apprestamento di strutture adeguate a sostenerne le conseguenze.
Certo non erano mancate le osterie con la piccola accoglienza per il viandante, ma tutte presto trasformate in piccoli alberghi, a cui seguirono in rapida successione quelli “per i signori”, cosicché saranno soprattutto gli stranieri a cercare e apprezzare Cortina, la bellezza della sua natura e la qualità della sua ospitalità.
Vennero ben presto in tanti, dalle più lontane parti del mondo: una profanazione, una offesa alla purezza e alla integrità di quella terra? Lo fu in qualche misura, ma occorre riconoscere che gli ampezzani trovarono la maniera di restarle fedeli: “l'attaccamento geloso e il senso della organizzazione collettiva sono in loro virtù innate”, e furono proprio queste doti a assicurare a Cortina lo sorte di un privilegio conquistato grazie alla magnifica avventura di un villaggio contadino divenuto nel tempo di un secolo o poco più il centro di un turismo eletto, di marchio internazionale e di nazionali eleganze.
Né le pause dolorose dei conflitti mondiali riuscirono a interrompere se non temporaneamente quel destino straordinario: dopo le ultime spensierate atmosfere dell'Austria felix sarà l'Italia del Ventennio ad amare Cortina di un amore senza reticenze, e dopo la fine della seconda tragedia mondiale arriverà la ripresa discreta di una consuetudine di svago e di sport nello splendore di un paesaggio rimasto pressoché indenne.
Dietro a tutto ciò c'erano sempre loro, gli impresari dell'ospitalità, per i quali l'esperienza si era già fatta cultura, segno di una distinzione e garanzia della sua continuità. Saranno le famiglie di una aristocrazia del lavoro che farà dell'albergo il luogo cruciale di un delicato equilibrio tra conforto, funzionalità e signorilità, sicché negli anni passerà nelle sue stanze la società della cultura, dell'arte, della nobiltà, del potere: perché gli albergatori sapevano fare tesoro della vecchia massima di Brillat-Savarin, per il quale invitare qualcuno alla nostra tavola significa prendere su di noi la cura della sua felicità.
Fu così che nell'abbraccio di quella che ormai era una categoria dell'intelligenza crebbe la grande Cortina, sorvegliata dall'alto dalla cinta delle sue cime, ma dentro di sé soprattutto affidata alla pratica dei suoi albergatori, maestri di una eccellenza che non ha smesso di cercarsi.
P.S. Testo tratto dal volume “Cortina d'Ampezzo, ritratto inedito di una signora”, di Stefano e Nicola Zardini (Light Hunter publications, Cortina, 2002)