Nel travolgente libretto scritto «Come in un romanzo... sfogliando la vita», Francesco Alverà ci offre un autoritratto vivido e drammatico, raccontandoci «l'intensa vita da lui vissuta nell'arco di un trentennio sfociato nei bagliori della guerra». Il testo è stato raccolto, dopo la sua recente scomparsa (10 ottobre 2010), dalla figlia Silvana, perché «Francesco Alverà aveva ancora un sogno: vedere stampate e donare a parenti e amici le sue memorie».
Dopo la sua prima vivace giovinezza trascorsa a Cortina, «con la naja cominciò l'odissea del giovane Francesco... Arrivò la fatidica cartolina rosa ed egli partì il 3 aprile 1935 per Udine. Il 14 febbraio 1936 si imbarcò a Napoli per la Somalia italiana. Interessantissimo, a questo punto, il racconto delle sue esperienze in Somalia, dove si distinse per alcuni preziosi risolutivi interventi personali e per la forte fibra che lo salvò dalle conseguenze della malaria da cui in Africa fu colpito.
Dopo una breve parentesi di vita civile (nel 1938 conobbe - un colpo di fulmine - la futura moglie Amelia), l'11 aprile del 1939, pochi giorni dopo l'occupazione italiana dell'Albania, la fatidica cartolina lo costrinse a ripartire con la prospettiva di una lunga ferma militare.
Trasferito nel '43 alla caserma Re di Lubiana, «la vita» di Francesco ebbe una svolta a dir poco avventurosa. Il 9 settembre 1943 giunge alla caserma un carro armato tedesco, e un ufficiale intima agli italiani: «Consegnate le armi!». Francesco riesce a fuggire con altri verso la boscaglia di Vrhnika, quando, bloccato dai Partigiani, viene incitato a combattere contro i Tedeschi.
Riescono ancora a fuggire, ma poi: «Alt! I tedeschi i me a becà, portà inte la stazion dove era altri vinti, trenta dei nostri, poi ci hanno montati su camion aperti, e via; nel pomeriggio i me a caricà su un treno e portà su verso Postumia», dove furono trattenuti due giorni in una caserma.
Caricati, poi, erano in 74, in un solo vagone, furono trasportati a Lipsia. Il treno ripartì, carico di prigionieri stremati, finché, il 23 settembre del 1943, a Thorn in Polonia, si concluse questo viaggio di circa 12.600 km. A Thorn, in un campo di smistamento, Francesco rimase circa 40 giorni. «Era proprio la morte, là veramente ho pensato fosse finita!! Non eravamo né soldati, né prigionieri di guerra, solamente quelli che avevano tradito».
Il racconto qui si fa spaventoso: Francesco fu trasportato, insieme con una novantina di prigionieri, verso i lavori forzati nelle fabbriche tedesche, dove rimase ben 13 mesi.
Lo spazio non ci consente di raccontare le tragiche vicende di cui Francesco fu successivamente protagonista, come l'inferno di Dresden, tra bombardamenti e fughe («ero tutto che sanguinavo, non sapevo neanche chi ero»), finché, perché Francesco e i compagni fossero lasciati liberi, fu necessario che il 26 aprile Radio Berlino annunciasse la morte di Hitler. «Arrivati a Tarvisio, Francesco si sfogò mettendosi a piangere. Giunto finalmente a casa, dormì quattro giorni, non senza incubi della terribile prigionia».
Ai primi di ottobre del 1945, si conclude questa drammatica storia con il rientro di Francesco nella sua Cortina d'Ampezzo dove egli chiese subito alla Direzione della Sad di poter lavorare, riprendendo così la vita normale: «Francesco, che mantenne sempre le sue doti di bontà e di altruismo, era tutto dedito al lavoro e alla famiglia».
Personaggio, insomma, resistente ed eroico, ebbe anche il merito di ritrovare il ritmo dei suoi affetti e della sua vita. «In questi anni - conclude la nipote Francesca - hai avuto una vecchiaia serena, coccolato ed accudito dalla mamma, ben voluto da tutti, anche nel tuo nuovo paese Calalzo, dove oramai stavi bene».