Allo scoppio della grande guerra Teofilo Gillarduzzi, classe 1899, aveva quattordici anni, troppo pochi per indossare la divisa.
Si trovava a S. Andrea di Pusteria, dove quattro anni prima alla morte improvvisa del padre Gian Antonio, era stato collocato in una famiglia di contadini, conosciuti per moralità e generosità. È il ragazzo col gilet e la camicia bianca, mentre regge il cartello "Per la Patria", che si vede nella notissima fotografia scattata a Bressanone il 6 agosto 1914 che appare in tutti i libri di guerra.
La mamma l'aveva accompagnato fino a Cimabanche, assieme al fratello Nestore, che di anni ne aveva uno in più e che sarebbe morto per malattia contratta durante il servizio militare. Nonostante l'età egli venne precettato a prestare servizio in borghese. Ricordava che lo mandavano a far la guardia ai ponti. Ma, al compimento dei diciotto anni, essendo di sana costituzione e di alta statura, venne inquadrato nel 14° reggimento di artiglieria a Budapest. Fra i tanti servizi gli toccò anche la fortuna di trovarsi una volta a cassetta della carrozza imperiale che trasportava l'erede al trono. Le batterie di cannoni erano ippotrainate, dunque nell'artiglieria erano tutti conoscitori di cavalli, perciò addetti anche alle sfilate, come quella nel 1917 per l'incoronazione del nuovo imperatore, dopo la morte del Kaiser Franz Joseph.
Erano i giorni di Caporetto quando il suo reggimento, in partenza da Siernig per raggiungere il fronte francese, era stato dirottato invece su quello italiano. Quando le batterie arrivarono nel Friuli si accampavano dove capitava, peraltro ben visti dai contadini meravigliati quando li sentivano parlare italiano. Nel 1918 la guerra era già messa male per l'Austria.
LA RITIRATA AVVENTUROSA SENZA DOCUMENTI
Si trovavano in postazione non molto lontano dal Piave e scarseggiavano di tutto, dai viveri alle munizioni. Quando un loro cannone si scopriva, sparando un colpo, veniva investito da un inferno di fuoco. Di conseguenza s'erano trovati molto presto senza pezzi di ricambio, tanto che qualche reparto per non farlo sapere agli Italiani aveva fatto sporgere dalla trincea tronchi di legno dipinti di scuro a simulare un cannone! In autunno il suo reparto era stato arretrato a Ceneda (oggi Vittorio Veneto) praticamente disarmato. Ma anche là in novembre era stato attaccato per un'ennesima volta con tante perdite. Dalla posizione semidistrutta Teofilo si allontanò in compagnia di commilitoni trentini con l'intenzione di raggiungere Cortina; ma nei pressi del Fadalto persone del posto, inviperite a vedere le loro divise austriache, li fermarono.
Solo l'intervento di una pattuglia italiana in avanguardia li aveva salvati dalle botte. Dopo essere stati privati di tutto ciò che portavano (Teofilo rimpiangeva lo zaino con i documenti, le fotografie e la corrispondenza ricevuta dai genitori) venne trasferito a Spinea e poi a Riva del Garda. Ricordando ancora la fame raccontava con ironia: "Eravamo prigionieri di guerra perciò a colazione, pranzo e cena ci davano pasta col pomodoro… tutti i giorni!" Ma la vigilanza era poca e così con l'amico trentino decisero di andarsene.
Nessuno li fermò. Arrivarono a piedi sul Pocòl un giorno di maggio del 1919. La madre Lucia li vide sulla porta e gridò: "Oiuto mare, l' é ruà Teofilo!".
A CACCIA DI CAMOSCI SULLE MONTAGNE AMPEZZANE
Teofilo era il settimo dei quattordici figli di Giovanni Antonio Gillarduzzi (1860-1910) e di Lucia Lacedelli figlia di Alessandro, la celebre guida di Paul Grohmann. E dalla madre, appunto, aveva ricevuto l'amore per le Dolomiti ampezzane che conosceva come la propria casa. Da giovane le aveva battute per procurarsi la carne di camoscio da portare alla famiglia numerosa. Tutte, dai canaloni del Cristallo fino alla più aerea cengia o al remoto ballatoio d'erba sulle Tofane. Quando la riserva di caccia di Cortina fu riorganizzata, ne divenne socio. Di quella ha avuto il tesserino per più anni di chiunque, l'ultimo nell'anno 2006, prima di morire. Aveva dimenticato (?) il numero di capi, che aveva catturato.
Centinaia, migliaia? Camosci, caprioli, cervi, lepri, cedroni, galli e pernici? Teofilo era sempre di buon umore, vuoi per il carattere positivo dei Lacedelli o forse per la convivenza con le sorelle, otto addirittura, tutte di carattere solare e festoso, abbinato all'amore per il lavoro. Dalla più anziana del 1891, otto anni più di lui, alla più giovane, nata nel 1910, l'anno in cui il genitore era morto improvvisamente per problemi cardiaci.
La madre rimasta vedova con tutte quelle bocche da sfamare non s'era persa d'animo. Suo marito, in previsione dell'imminente arrivo della strada delle Dolomiti da Bolzano a Cortina, aveva appena finita la nuova costruzione sui prati di proprietà che aveva al Pocòl. Anzi, aveva con preveggenza chiesto e ottenuto la concessione della privativa di tabacchi e la licenza per bar e caffè. Lei, dal canto suo, si affrettò a chiedere pure la gestione del casello dei pedaggi sulla neonata arteria, che era stata definita a pagamento. E così vi aveva organizzato il lavoro dei figli grandicelli. Ma, cogliendo l'occasione di lontani parenti in procinto di emigrare in Argentina, aveva affidato loro Carmen e Fiorenza, le più anziane. Con il loro aiuto la modesta costruzione era cresciuta fino a diventare un albergo di prestigio, il terzo dopo i due già esistenti Tofana e Pocòl. Oggi è il sontuoso e conosciutissimo quattro stelle Hotel Argentina.
A CAVALLO DI TRE SECOLI
Nel 1937 Teofilo, nome augurale che significa "amore di Dio" , sposa Flora Valle Kefar, più giovane di dodici anni che gli darà quattro figli: Nicoletta, Giovanni (1944), Ferruccio (1947) e Daniela, genitori di sei Teofilo e il fratello Nestore a Bressanone nel 1917 nipoti di cui era orgoglioso. Con loro amava farsi ritrarre anche in tarda età, giacché la Provvidenza gli ha fatto raggiungere i cento sei anni, toccando tre secoli. Nato allo sfumare dell'Ottocento, ha attraversato per intero il Novecento, gustando infine anche uno spizzico del Duemila. È riuscito a ricevere la benedizione del papa santo Giovanni Paolo II, un pomeriggio sul passo Falzarego. E nel 2004 pure, di passaggio per Cortina, Carlo d'Asburgo che era stato, seppure per poco tempo, imperatore d'Austria e Ungheria, prima dell'abdicazione, cui venne presentato.
Teofilo, forte della sua conoscenza della lingua tedesca, gli ricordò di averlo conosciuto personalmente. "Nel 1917 ho guidato la sua carrozza, a Budapest, il giorno dell'incoronazione. Ma forse Lei non se lo ricorderà!" Sempre di buon umore, si sentiva senza nemici. E lo dichiarava. Anzi ci faceva dell'ironia. Ad ogni "4 novembre" partecipava alle cerimonie commemorative nel vicino monumento sacrario del Pocòl, dove riposano circa undicimila soldati italiani e austriaci. Una volta commentò, come parlando a sé stesso ma era invece ad alta voce: "E pensà che chiste i sarae stade i me nemighe …". Nella spaventosa tragedia Teofilo aveva perduto i fratelli Ferruccio di ventuno anni e Nestore di ventitre. Due fra i centotrenta quattro caduti di Cortina d'Ampezzo! La tensione del rito si sciolse nel sorriso delle autorità, mentre qualcuno asciugava le lacrime!
Nella foto: Teofilo Gillarduzzi il 6 settembre 2005, il giorno del suo 106mo compleanno