La vicenda di Giuseppe Constantini Febar da Gilardòn è soltanto in parte comune a quelle degli oltre duecento giovani ampezzani chiamati a servire la patria austroungarica nel giugno del 1914; i primi in Serbia, dove tutto era iniziato con l'attentato all'erede al trono; poi nella lontana Galizia, fra Kracovia e Leopoli; infine sulle montagne di casa e poi sul Piave. Ciò che la rende diversa è la presenza di Anastasia Saveriovichi Sennikowa, una ragazza russa dagli occhi dolci e i capelli neri, cui Giuseppe doveva la vita. Una storia romantica che emoziona ancora ad un secolo di distanza. Constantini era soldato in una delle trincee attorno alla città fortezza di Przemysl, dove i russi avevano rovesciato tutta la potenza del loro esercito decisi a sfondare. Essi usavano sempre la stessa tecnica.
Prima bombardavano con i grossi calibri poi, quando pensavano di aver neutralizzato le difese, mandavano avanti le fanterie in masse compatte. I comandi austriaci davano allora l'ordine: «Fuori tutti». Ed erano scontri furibondi all'arma bianca finché le mitragliatrici riuscivano ad arrestare l'avanzata. Ma erano sempre massacri.
Ricordava Constantini: «Quel giorno ero appena uscito dalla trincea e m'ero arrestato a puntare il fucile quando ho visto venirmi addosso un cosacco a cavallo. Improvviso balenò il lampo della sua sciabola sguainata.
Credo d'essermi spostato d'istinto, ma ho sentito un dolore atroce. Tutto in un attimo, pensando di morire. Quando non so quanto tempo dopo mi sono svegliato ero steso sulla paglia in un'isba. Avevo la spalla fasciata che mi faceva male. Rivedevo la lama che voleva spaccarmi la testa e lo scatto per schivarla. Ma una voce di donna diceva: «Dobro, dobro». Così s'era salvato e mostrava la cicatrice fra il collo e la schiena.
Raccontava che alla sera con il buio uscivano i portaferiti dell'esercito russo a raccogliere i feriti e i morti. Li caricavano sulle carrette. Si facevano aiutare dalle donne dei villaggi. Quella ragazza dai capelli neri l'aveva trovato sotto un cumulo di cadaveri, e siccome dava segni di vita, l'aveva portato nella sua isba, anche se era un austriaco.
Rimase nascosto in quel rifugio fino alla guarigione; unico uomo, assieme a donne e bambini.
Giuseppe, che di professione era maestro falegname, rimase subito colpito dagli oggetti da cui era circondato, tutti di infimo livello, fossero letti, sedie, culle, tiretti, ante delle porte, finestre. Appena ritrovate le forze si ingegnò a sistemarli. I lavori che svolgeva anche per i vicini, dove la sua bravura era stata presto conosciuta, favorì l'accoglienza, rendendola gradita e anzi preziosa. Riparò di tutto confezionando oggetti sconosciuti a quella gente di indole buona ma con scarsa cultura; confezionò gli arcolai (el corleto!) che le donne russe non avevano mai visto, giacché filavano la lana tenendo la rocca sotto l'ascella. Mise assieme persino un mulinello a ruota per ventilare il grano, altro strumento che lasciò le contadine a bocca aperta. Così sbocciò l'amore per Anastasia Saveriovichi Sennikowa, cui doveva la vita.
Affetto ricambiato anche perché era un bell'uomo, di alta statura. Appena possibile decisero di sposarsi ad un pope ortodosso.
Ma così anche le autorità scoprirono quel prigioniero di guerra, per sua fortuna bravo, a lavorare il legno. Finì che lo spedirono come operaio specialista in una fabbrica di aeroplani, nella città di Omsk a 2300 chilometri ad est di Mosca. Era l'inverno del 1915. Presero il treno lui, la moglie e il loro bimbo appena nato, e battezzato.
Ma il piccolo Boris, a causa degli strapazzi sulla Transiberiana, morì appena arrivati.
Lo seppellirono con una cerimonia, sotto la neve. Una tragedia per la famiglia. Ma Const
UNA CARTOLINA DALLA RUSSIA
Intanto nel 1917, con lo scoppio della rivoluzione, la Russia siglò un armistizio con la Germania e l'Austria, in conseguenza del quale anche Giuseppe Constantini cessò d'essere un prigioniero, peraltro rimanendo a lavorare in quella fabbrica. Nulla mutò nemmeno nel 1918, quando per tutti finì la guerra con la sconfitta dell'Austria e della Germania e la vittoria della cosiddetta Intesa, cioè Francia, Gran Bretagna e Italia. Egli avrebbe potuto rientrare, ma la sua condizione era privilegiata. Non solo era un tecnico lautamente pagato, ma per di più aveva sposato una cittadina russa e conosceva quella lingua. Così decise di restare in Siberia.
Ma nel 1920, con la presa del potere di Lenin, il vecchio rublo zarista fu dichiarato all'improvviso privo di valore. Era la rovina per tutti coloro che avevano risparmiato, e pure per la famiglia Constantini-Saveriovichi di Omsk. Trascorso qualche mese nella speranza che le cose si sistemassero, quando essi compresero che per loro non vi sarebbe stato un futuro, decisero di ritornare a casa.
La cartolina arrivò in Ampezzo un giorno del 1921 e qualcuno gridò al miracolo.
Diceva più o meno: «Stiamo bene, siamo in viaggio mia moglie ed io, arrivederci presto,
Giuseppe». Dall'inverno del 1916, quando da quella remota città aveva spedito la sua foto, con indosso un lungo cappotto con il collo bordato di pelliccia, la catenella al taschino e il colbacco nero sul tavolo, peraltro firmandosi "prigioniero di guerra", non c'era stata nessun' altra notizia. Lo consideravano disperso. Uno dei tanti. E mentre sbiadiva la speranza di rivederlo anche per la madre Rosalia che, alla domenica pregava per lui alla messa, ecco la notizia che non solo era vivo e stava bene di salute, ma era anzi sposato.
Chissà con chi, fu il primo pensiero.
Curiosità e forse rammarico perché magari, fin da prima della guerra, avevano individuato in paese la futura nuora.
Arrivati a Cortina, il pievano don Frenademez aveva insistito per benedirli anche se regolarmente sposati in chiesa davanti al pope. Poi erano nati i quattro figli: Silvia 1922, Angelo 1923, Faustino 1926 e Flora Maria 1927 che, un tempo, ricordavano d'essere stati indicati a dito a scuola come i "figli della russa". Anastasia s'inserì bene nella società ampezzana, nonostante qualche iniziale difficoltà. Parlava con naturalezza il dialetto ladino; più difficile era stato invece scrivere l'italiano. Nessun problema per i lavori di casa e della campagna di cui allora viveva la gente d'Ampezzo.
Ma lei, che era nata e cresciuta in un mondo agricolo, conosceva gli animali, in particolare i cavalli che sapeva pure cavalcare. Capì che avrebbero gridato allo scandalo se avesse osato saltare in sella; ma quando ne incontrava uno, anche se era un vecchio ronzino agganciato al carro, le piaceva accarezzarlo sul muso e parlargli. Parole misteriose sussurrate nel ricordo della steppa innevata dove non sarebbe mai più ritornata? Alla partenza dal porto del Mar Nero lei e il marito avevano dovuto lasciare tutto ciò che avevano messo da parte. Ed era molto! Raccontavano in famiglia: «In Italia arrivarono con i soli vestiti che indossavano.
Ma la nonna aveva una cosa in più.
Una piccola croce d'oro che aveva occultato nella treccia dei capelli e che sfuggì ai doganieri.
Non la sfilava mai dalla catenina, anche quando la portava alle labbra per baciarla.
Quanto dolore il giorno che la perse, mentre raccoglieva il fieno sui prati delle Cinque Torri! L'ultima testimonianza del suo paese!» Poi riferivano anche di cartoline e lettere che Anastasia scambiava con un qualche parente in Russia. Così lo ripetono oggi i nipoti. Sarebbe forse il caso di salire lassù a ritrovarli e riannodare i fili della memoria seppure ad un secolo di distanza? Nel nuovo clima culturale instaurato con la Russia, l'idea potrebbe rivelarsi geniale. Per mantenere accesa la fiamma della memoria su tutti i giovani ampezzani che hanno vissuto quella guerra di cui commemoriamo i primi cento anni, e molti di loro non sono ritornati.