A cento anni dalla Grande Guerra
    

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A cento anni dalla Grande Guerra

Mario Ferruccio Belli

20/10/2014
Augusto Caldara, classe 1891, quando l'avevano chiamato a fare il soldato, viveva a Pezié dove il padre aveva costruito la casa con il fienile e un grande terreno a prato. Vi sarebbe ritornato sette anni più tardi, tutti passati al servizio dell'imperatore. Prima nelle caserme di Bressanone, poi a fare la guerra nella Galizia, infine prigioniero in Russia. Ma era la città fortezza di Przemysl ai piedi dei Carpazi, ad est di Cracovia, che ricordava con tristezza perché vi aveva vissuto il tremendo assedio di mesi e mesi sotto le bombe. In Austria era considerata la porta d'ingresso dell'Impero per la sua posizione strategica, a cavallo del fiume San, della ferrovia e della grande strada che l'univa a Vienna.

Nel 1914, allo scoppio della guerra c'era una guarnigione di oltre trecentomila soldati, distribuiti in una quarantina di gigantesche fortezze che la rendevano assolutamente imprendibile. I Russi l'avevano attaccata fin dai primi giorni di agosto con tutta la loro potenza militare che era di gran lunga superiore per uomini, anche se forse non per armamento. Per mesi l'avevano sottoposta ad assalti, bombardandola notte e giorno e avanzando gradualmente per aggirarla.

Ricordava Caldara che verso la fine dell'anno, dunque in pieno inverno, quasi all'improvviso le bombe avevano cominciato ad arrivare dalle spalle. Comprese che erano circondati. Infatti presto ci fu la riduzione del rancio, cominciando dal pane diventato quasi immangiabile. Poi scomparve la carne di manzo in scatola sostituita da quella equina; infatti stavano abbattendo i cavalli delle artiglierie. Poi arrivò la fame e in molti si misero a cacciare i topi per sfamarsi.

Ricordandolo commentava amaro "qualcuno è morto per non averli mangiati!" La resa avvenne il 26 marzo 1915. Tutti vennero caricati sui treni e spediti nelle immensità delle steppe russe, senza sapere dove fossero diretti. Una notte, che il treno si era arrestato in aperta campagna, Augusto saltò giù nel buio e si nascose. Quando il convoglio ripartì si mosse seguendo la massicciata. Al mattino scorse lontano un filo di fumo. Decise che là c'era una casa e vi si diresse. I contadini dell'isba dov'era capitato lo accolsero e gli diedero da mangiare senza cacciarlo, anzi gli offrirono un giaciglio nella stalla. Ci volle pochissimo per far capire loro che conosceva il bestiame.

Lo aveva frequentato fin da ragazzo a casa, prima di partire per il soldato. Era diventato tanto esperto che suo padre Bortolo l'aveva iniziato al commercio. Gli bastava un giro attorno ad una mucca per conoscerne l'età, il peso, lo stato di salute, se era da latte o da macello. Nell'isba russa divenne ospite gradito. Avendo poi casualmente risolto un parto difficile, salvando assieme la madre e il vitello, pensarono che egli fosse un veterinario. Arrivavano allevatori anche da lontano a chiedere suggerimenti e aiuto. I suoi ospiti gli offrirono una sistemazione insistendo perché restasse con loro. Anche quando si seppe che la guerra era finita; anzi ebbe qualche difficoltà a lasciarli per fare ritorno a casa.


PER IL COMMERCIO DEI BOVINI BASTA LA PAROLA

A Cortina arrivò inaspettato a metà del 1919, quando ormai lo consideravano morto o disperso. Diceva che la madre gli aveva fatto dire messe come ai defunti. Augusto era il quarto dei dodici figli di Bortolo Pàrtel
(1854-1922 ) contadino, ma con un mulino sul ruscello che scende anche oggi da Fraina e sul quale, nei pressi del Boite, i Manaigo avevano costruito una centralina elettrica. Riprese l'attività commerciale di bovini. Nei suoi giri in Cadore conobbe Sabina Menegus di Andrea da San Vito, una bella ragazza di quindici anni più giovane, che sposò. Portare in Ampezzo una cadorina non era allora comune, anzi abbondavano i frizzi e le battute. Ma ci voleva ben altro per distogliere uno che aveva girato l'Europa e mezza Russia. Fu un matrimonio felice con sette figli: Silvia (1931) maritata Adolfo Boscaro, Giuditta Rachele (1933), Ida (1934), Aldo Luigi (1936-1961); Paolo Andrea (1937), Angelina (1944) e Andreina (1950). Prendeva il treno delle Dolomiti alla piccola stazione del Miramonti per i suoi illustri clienti, quasi a ridosso della sua casa.

Andava indifferentemente verso Dobbiaco per poi raggiungere a piedi i masi sulla montagna. Oppure in Cadore, dove batteva ogni borgata e casale. Comperava vacche e vitelli che poi caricava sui vagoni della più vicina stazione scaricandole a Pezié. Si faceva aiutare dai ragazzi più grandi. Allogava le bestie nelle due stalle e, se per caso non vi trovavano posto perché già piene, le legava all'esterno, sotto gli sporti del fienile. Trattava gli affari con denaro contante. Trattava acquisti e vendite pagando in contanti sfilando le banconote da un rotolo che teneva nella giubba. Non chiedeva ricevute. Bastavano la parola e una stretta di mano.

Ma il suo forte erano gli scambi temporanei di Augusto Caldara Partèl (1891-1974) con la moglie Sabina Menegus di San Vito il giorno delle nozze bestie lattifere. Girando per le case sentiva la richiesta di chi aveva foraggio in più, ma gli mancava momentaneamente una vacca per il latte. Prendeva mentalmente nota e appena trovava altrove una stalla dove invece scarseggiava il fieno e c'erano invece le lattifere, esaudiva le due richieste mettendo in collegamento i richiedenti. A voce e senza scritture. E tutto a suo carico giacché era lui che ritirava il capo del latte, e sempre lui che lo dava in "prestito" temporaneo. Era inteso che l'animale stava a carico suo: fosse morto per un qualche accidente, l'avrebbe considerato una propria perdita; se invece la vacca stando nella nuova stalla avesse figliato, il vitello non era suo ma invece di chi stava nutrendo la madre. Di questi scambi Augusto Caldara arrivò a gestirne fino a cinquanta! Senza mai una lamentela. Tutte le vacche in scambio le aveva nella memoria, ancorché si trovassero in stalle lontane una dall'altra e pure in paesi differenti.

Poi c'era la famiglia numerosa. La morte improvvisa di Aldo, il primo figlio maschio, lo segnò come la saetta che colpisce l'albero; ma non imprecò, non pianse, trovando conforto nella fede che l'aveva sorretto in Russia e nei mesi di fame nella fortezza assediata della Galizia. Indossava un'inconfondibile mantella a ruota, di loden nero, buona per il freddo e la pioggia. Con il sole la portava avvolta sull'avambraccio. Il suo mondo ruotava attorno alla famiglia che lo vedeva partire al mattino e fare ritorno a notte inoltrata. Insegnava ai figli: "Male non fare, paura non avere!" Ancora oggi, a tanti anni dalla scomparsa avvenuta nel 1974, molti in Cadore e in Pusteria ricordano l'ampezzano Augusto Pàrtel, di cui hanno forse dimenticato il cognome ma non l'onestà.

Nella foto: Augusto Caldara con la moglie Sabina Menegus