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COME AMBROGIO CAZZETTA INSEGNO’ A SCIARE ALL’EX IMPERATRICE SORAJA IN VACANZA A CORTINA

Mario Ferruccio Belli

01/02/2011

Ambrogio Cazzetta era nato, nel 1917, a Selva di Cadore dove la madre s'era rifugiata pochi giorni prima della disfatta di Caporetto.
Finita la guerra, e congedato il marito, tutti avevano fatto ritorno in Ampezzo, nella casa di Pontejèl, comperata alcuni anni prima per farne una bottega artigiana. Primo figlio maschio, dopo le elementari e l'Istituto d'arte, Ambrogio aveva seguito le orme del padre Attilio lattoniere e vetraio. Nel 1935, contro la volontà della madre che non credeva a «quelle moderne diavolerie » era diventato maestro di sci della famosa scuola di Cortina, la prima ad operare in Italia. Alla fine del 1937 era stato chiamato a fare il soldato a Tai. Ma presto, assieme ad alcuni commilitoni sciatori, Enrico Menardi Malto, Alfonso Lancedelli Poloto, Francesco Dadiè, e altri di Cortina, lo avevano dirottato alla Scuola alpina di Courmayeur. Vi rimase quasi due anni, giusto in tempo per partecipare alla guerra contro la Francia.
Finita quella, il suo reggimento era stato caricato sulle navi e mandato in Spagna con muli e salmerie. Ma erano vestiti in borghese, perché non si trattava di una vera guerra dichiarata. Oltre tutto erano sbarcati a Cadice quasi solo per ammirare le belle ragazze spagnole, come commentava ironico, giacché le operazioni militari erano già concluse. Ma non era ancora tempo di congedo.
Rientrato in Italia Cazzetta aveva ripreso a fare l'istruttore di sci in val d'Aosta, sfuggendo così per un soffio alla guerra di Russia. L'otto settembre 1943 lo trovò casualmente in licenza a Cortina. Non volendo aderire alla repubblica di Salò, né vestire la divisa dei tedeschi che stavano invadendo l'Italia, riparò a Santa Fosca nella vecchia casa di famiglia.
A metà novembre i tedeschi, informati da qualche spia, lo catturarono portandolo assieme ad altri soldati di Selva a Belluno, dove fu lungamente torturato. Ai tedeschi era stato detto che aveva preso contatto con i partigiani della Brigata Calvi e ne volevano quindi carpire i segreti. Prima di Natale fu trasferito a Cortina, in una casa di via Cantore sequestrata dai tedeschi per farne caserma. Qui venne sottoposto ad un nuovo trattamento, quello riservato agli ufficiali e ai graduati che non avevano aderito al nuovo governo. Ancora sevizie, privazioni e tanta fame. In linea d'aria era a forse un centinaio di metri da Pontejèl, dove viveva la famiglia.
Qualche volta la sorella Gemma, grazie alla statura minuta che la faceva più giovane dei suoi anni, riusciva a recapitargli cibo. Gli promettevano la libertà, purché collaborasse; ma Ambrogio era coriaceo nel suo giuramento di fedeltà alla patria.
Nei mesi seguenti venne trasferito assieme ad altri colleghi nel campo di concentramento di Bolzano. Ricordando quella trasferta in camion, riferiva che gli era rimasta una fisarmonica che suonò durante tutto il viaggio, rallegrando i compagni di sventura.
La consegnò ad un collega pusterese che era stato lasciato andare e che gli aveva promesso che gliela avrebbe ritornata. Ma Ambrogio non andò più a riprendersela. Le preghiere del fratello Angelo, sacerdote, oppure la devozione alla Madonna della Difesa, dove la madre andava tutti i giorni a pregare, lo salvarono dal trasferimento nei lager di sterminio della Germania.
Quando raccontava di questo colpo di fortuna precisava che, forse, erano stati utili anche i bombardamenti americani sulla ferrovia del Brennero! Di certo nei primi giorni di maggio 1945, all'improvviso, vennero spalancate le porte del campo.
Ambrogio uscì assieme ad altri colleghi, imboccò la strada della val Gardena e camminò senza mai fermarsi, fino a notte. Due giorni più tardi compariva a Santa Fosca di Selva. Aveva passato sette anni della sua vita o in divisa da Alpino o infagottato nella tuta dei prigionieri. Era l'ombra di sé stesso, dimagrito, spettrale.
Dubitavano che ce l'avrebbe fatta. Invece bastò l'estate a fare fieno sui pendii di Fertazza. Faceva ironia sulla quotidiana polenta e formaggio confrontandola con i… menu del campo di Bolzano.
In autunno era a Cortina nella bottega di lattoniere. Con la neve poteva riprendere le lezioni di sci ai rari clienti di quel primo anno di libertà. Gli piaceva fare il maestro di sci. Aveva predisposizione per le lingue. Ricorda la moglie che, prima del servizio militare, con l'aiuto di una grammatica e un vocabolario, aveva imparato da solo il tedesco per corteggiare una vezzosa cliente germanica! Dopo la guerra fece altrettanto con l'inglese. Questa volta, invece, per poter dialogare con alcuni clienti americani domiciliati all'albergo Europa. Il francese invece l'aveva appreso in Francia durante la guerra. Studiava alla sera sui libri ripetendo le parole di un vocabolarietto portato in tasca. La pronuncia la chiedeva alla gente del posto che, ricordava, era molto gentile.
Aveva un'indole aperta, l'opposto del fratello Angelo, cappellano degli italiani in Germania, ma con il quale faceva le gite sulle montagne. Tanto quello era riservato e silenzioso altrettanto Ambrogio era estroverso. Oggi si direbbe solare. Fin da giovane era fumatore di sigarette; nel campo di concentramento dove mancavano, aveva dovuto ripiegare nel tabacco da masticare.
Era soprattutto un alpino. Gli piacevano le adunate, i canti che portano via la malinconia, il vino rosso, le donne.
Bell'uomo, rude aveva battute fulminanti. Dei sette anni di servizio militare - meno un giorno ripeteva, in base a chissà quale calcolo - raccontava soltanto la parte gradevole. I giorni e i mesi dell'orrore nelle prigioni li aveva cancellati. Anche con la moglie Maddalena, sposata nel 1948.
Alla fine degli anni Cinquanta gli impegni di lavoro lo spinsero a ritirarsi dalla scuola di sci. Ma un giorno dell'inverno 1962 telefonò Renato Manaigo del Posta. Rispose la moglie Maddalena. Renato chiedeva se, in via eccezionale anzi per amicizia, voleva dare alcune lezioni di sci ad una sua cliente. Non disse chi era; si sincerò soltanto se era in grado di fare le lezioni in francese.
Ambrogio prima nicchiò, poi alle insistenze prese gli accordi e il giorno dopo si presentò in divisa. Renato lo attendeva nella hall seguito da un valletto che reggeva un paio di sci e le racchette. Dietro loro stava una bellissima signora dai capelli nerissimi e la tuta bianca. Fu allora che comprese che avrebbe dovuto insegnare a sciare alla principessa Soraya, moglie ripudiata dello Scià di Persia.
Per i trasferimenti faceva arrivare, senza dirgli la qualità della cliente, il vecchio D'Andrea Podar che, quando lo seppe, se ne lamentò: «se me lo dicevi subito sarei venuto con la Mercedes …».
Cambiava ogni giorno campetto per disperdere eventuali curiosi.
Un giorno offrì una sigaretta Alfa alla principessa che volle provare. Subito la gettò tossendo mentre agli occhi spuntavano le lacrime. Il segreto ben difeso da tutti fu rivelato casualmente dal Corriere della Sera. Era stato il portiere a dare la soffiata al corrispondente. Inutilmente i giornalisti mandati dal Gazzettino di Venezia cercarono la principessa per un'intervista.
Le sue uniche vacanze a Cortina erano appena finite.
Ambrogio Cazzetta, artigiano lattoniere e maestro di sci poliglotta è mancato a Belluno nel 1988. Di Soraya, sua ultima cliente, non volle mai raccontare nulla più delle poche cose risapute. Ripeteva solo che era molto bella. Ma fra le sue carte conservava con gelosia le immagini scattate da un fotografo veneziano, casualmente assieme.