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Il mio decalogo

Roberto Pappacena

01/09/2012

Le persone che incontro per via si congratulano a volte per il piglio giovanile che, a novant'anni, pare che io dimostri ancora nel passo e nella voce. A furia di sentirmelo dire, comincio a crederci anch'io e a chiedermi da che cosa ciò possa dipendere. Ho ripescato così le seguenti "ricette" che mi permetto di suggerire ad amici e conoscenti.

1) «Non auscultarsi mai». Tutti, più o meno, siamo affetti da disturbi fisici e psichici.
Ogni giorno - mi disse una volta un simpaticissimo zio chirurgo - ci sentiamo qualche cosa. Non facciamoci caso, pesiamo ad altro, ed eleviamo la mente a più nobili pensieri.

2) «Non guardare troppo la televisione». Ci condiziona in realtà con le cose brutte che avvengono ogni giorno. Cose belle non ce ne sono? Dedichiamoci piuttosto alla lettura: ci sono libri bellissimi che noi non conosciamo.

3) «Guardare molto la natura», ricchissima sempre di impulsi benèfici e di affascinanti suggerimenti.

4) «Avere ogni tanto la testa fra le nuvole». La fantasia, specie se creativa, ci salva dal contagio dell'ansia e dell'angoscia, e ci infonde la gioia di vivere.

5) «Guardare e riguardare le opere d'arte». «Guardando» è il titolo felice di un volumetto di saggi sull'arte di Giorgio Soavi. E Vittorio Sgarbi ha il merito se non altro di aver richiamato l'attenzione sull'importanza di «saper vedere» le immagini dell'arte.

6) «Ascoltare a lungo la musica» che, con il suo profondo potere terapeutico, placa le tensioni dell'anima, ed è una medicina anche per il corpo.

7) «Fare progetti, certo, ma saper vivere anche alla giornata». Stamane ho avuto la fortuna di svegliarmi, ho un giorno intero davanti a me: cercherò di viverlo nel modo migliore, di non dissiparlo stupidamente, di giungere a sera soddisfatto di averlo vissuto. Domani, se avrò la fortuna di svegliarmi, sarà un altro giorno da amministrare come un bene concesso dalla vita. E la morte? L'abbiamo non davanti a noi, ma dietro le spalle. È morto ciò che non è più, è morto il nostro passato. Lo ha scritto Seneca. Perché non credergli?

8) «Ridere, ogni tanto, di gusto». Ai malati di depressione prescrivere la continua visione dei films di quei benemeriti dell'umanità che sono Stanlio e Ollio.

9) «Avere il senso dell'umorismo, nei confronti degli altri e soprattutto di se stessi». Dicono a Napoli: «Scinn' a cavalle! », scendi da cavallo! E a un idiota: «Tu sì nu strunz e' notte!» Perché di notte? Perché di giorno lo stronzo lo rispettano, di notte, invece, ci mettono il piede sopra.

10) «Fare tutto il possibile per aiutare gli altri, donandosi, sì, ma non al punto di distruggere se stessi». La nostra vita interiore, ha scritto Bergson, ha un suo ritmo come di sìstole e diàstole: ci doniamo agli affetti, al lavoro, agli impegni (il negotium dei latini), ma a un certo punto ecco scattare un termòstato che ci avverte che dobbiamo rientrare in noi stessi, per ricaricarci (l'otium dei Latini). Il vivere giusto è un equilibrio di altruismo e di egoismo, di apertura e di chiusura, di generoso dispendio e di necessario recupero di forze.

Questo è il mio modesto «decalogo». È facile, lo so, essere saggi, attivi, ottimisti, finché si sta bene. Ma lo star male, quando non si tratti di casi irrisolvibili, non dipende anche da una mancanza di saggezza?