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Cippi di Dolomia e stemmi di pietra bianca sulle montagne

Mario Ferruccio Belli

01/07/2013
Durante l'estate di duecento sessanta anni or sono la comunità d'Ampezzo vedeva un intenso incrociarsi di stranieri, diplomatici, tecnici della pietra e ingegneri di lingua tedesca mescolati a cancellieri e notai veneziani.

Il motivo? Semplice, ma d'importanza epocale. Si stava dando esecuzione a quanto l'anno prima la commissione internazionale, insediata a Rovereto aveva sentenziato sopra le "le contese ai confini della Pusteria e del Cadorino, riguardante le comunità di Dobbiaco, Ampezzo e Sesto per parte Austriaca e Auronzo, S. Vito e Comelico per la parte Veneta". Le decine di cippi e di lapidi con il leone di San Marco oppure con lo scudo e i gigli stilizzati degli Asburgo che i turisti scoprono, con meraviglia giustificata sulle nostre montagne, sono stati collocati appunto allora. Una ricorrenza che merita più che la nostra attenzione. La storia, quella con la esse maiuscola, è nota. Maria Teresa d'Asburgo quando nel 1740 divenne la moglie dell'imperatore del Sacro Romano, di fatto ne divenne l'imperatrice e da donna eccezionale quale era, terminate le guerre per consolidarlo, decise di riformarlo come volevano i suoi popoli. In campo economico si trattava di censire il territorio del suo grande stato riportandolo anche fiscalmente sotto l'unica sua giurisdizione. Contestualmente occorreva determinarne senza equivoco i confini. Anche questa esigenza ha dato le origini al suo famoso catasto.

Per i confini, nel 1750 insediò a Rovereto una commissione per rivedere quello con la Serenissima Repubblica. Era, forse, il più lungo giacché andava dal lago di Garda alle lagune di Grado, passando per l'Altopiano di Asiago e poi anche per il Cadore, l'Ampezzano e la Pusteria.

Di fatto il 20 ottobre 1752 la commissione, diretta dal conte Paride di Wolkenstein e Pietro Correr, concluse i lavori sul tratto fra Ampezzo, Dobbiaco e Sesto, lato austriaco, e San Vito, Auronzo e Comelico lato veneto.

Giunte le ratifiche da Venezia e da Vienna, già nella primavera del 1753 iniziavano i lavori sul terreno.
Li dirigevano quattro ingegneri militari: gli austriaci Antonio Wolf e Giuseppe Gelf e i veneti Franco Bennoni e Giandomenico dall'Acqua. Al loro seguito si muovevano i rappresentanti delle comunità, due o tre per ognuna; con cancellieri, interpreti dove necessario e uno stuolo di tagliapietre per allestire i cippi confinari, e poi serventi, carrettieri, manovalanza. Per ragioni topografiche la base fu dapprima Ampezzo, baricentrico rispetto a San Vito e Auronzo. Fu dunque in quell'estate che fra San Vito e Ampezzo venne costruita la marogna di Giau, così detta perché formata da un conglomerato di terra, sassi e tronchi. Ai sanvitesi, cui toccava l'onere di elevare quell'opera colossale, lunga quasi due chilometri, costò lire venete 6.105; quando un castrato veniva pagato 6 lire e un chilo di funghi secchi (ra fongies) una lira e mezza.

In più, naturalmente, ci furono ben 3876 giornate di lavoro prestato gratuitamente da tutte le famiglie del paese, secondo l'usanza del piodego. Così riuscirono a finirla nei novanta giorni prescritti, fra il 15 di giugno e il 15 di settembre. Ma la storia è fin troppo conosciuta e non la racconteremo un'altra volta.

TRA AMPEZZO E AURONZO
Rimandiamo pure ad altra occasione le peripezie affrontate da Dobbiaco e Sesto, capitanato di Heimfels nei pressi di Sillian, con i loro vicini del sud, Auronzo e Comelico.
Vediamo invece il tratto di confine fra Ampezzo e ancora Auronzo, al di là del Tre Croci. Il trattato così lo descrive: "per una parte di Mesurina ed altre montagne con li boschi goduti tra esse in comunione, cioè Maraja, Ansejo, Campedello, Col S. Angelo e Valbona".

È quel mondo d'incanto che sul lato est vede le Tre Cime, la Croda dei Toni e i Cadini; su quello sud le Marmarole e il Sorapìs. Ovvero la parte forse più bella delle Dolomiti Patrimonio Unesco. Sulle mappe i cippi confinari andavano "dalle sommità del Monte Cristallo, sopra una delle quali più eminente delle altre, marcato nel disegno il n. 14, lettera N, dove per la natura del sito inaccessibile non si è potuto piantarvi termine".

Questo significa che la linea di confine di Ampezzo con Auronzo iniziava proprio sulla vetta del Cristallo, la "più eminente delle altre", dove ovviamente non venne piantato nessun cippo né scavata nella roccia alcuna croce! Ma il successivo caposaldo, visitabile con qualche paziente ricerca, è la croce n.
15, alta circa un metro, scolpita ai piedi del Popéna. Da lassù si vede il successivo caposaldo, un pietrone alto un metro e mezzo e pesante un paio di quintali, il quale reca il numero 16, la croce e la data 1753. Sta ritto ed isolato sul costone, al di là della valle.

L'ultimo della serie è invece il numero 30, dove il leone veneto è stato rubato mentre resta ancora lo scudo degli Asburgo, collocato alle radici della Croda del Fogo, gruppo del Sorapìs; peraltro detta nei documenti Crode del Monte Magaredo.

Ci sarebbe poi un'enigmatica croce n. 31, collocata su un pietrone al vertice della piramide di bosco, voluta dal provveditorato all'arsenale di Venezia per difendere dai venti (?) la celebre foresta di San Marco.

In tutto sedici capisaldi che, dopo secoli di contese fra i pastori e i boscaioli di Ampezzo e Auronzo, hanno riportato la pace tra le due comunità. Quando sono divenuti confini dello Stato italiano hanno visto passare anche la Prima Guerra Mondiale che ne ha travolto più d'uno. Ci sono ancora? La maggior parte sì; e ci parlano delle fatiche e del sudore degli scalpellini saliti con gli attrezzi a scavare la roccia. Ma pure dei mulattieri che trasportavano le lapidi cesellate, dove il leone marciano tiene la zampa sul Vangelo aperto, in segno di pace. Oppure i candidi ghirigori degli scudi di Maria Teresa. Tutti installati sotto lo sguardo vigile degli ingegneri militari delle due parti.

LAPIDI CROCI E PIETRE IN COLONNA
Purtroppo qualche cippo è rimasto soltanto sulle carte giacché resiste a tutte le ricerche, nascosto chissà in mezzo ai mughi, o travolto dalle frane. Ce n'è uno (numero 25?) che si può forse ancora ammirare addirittura nel letto del torrente Ansiei, dove è scivolato chissà quanto tempo fa, nei pressi del ponte a Valbona. Il più emozionante, anche perché la collocazione riparata ce lo dà come era allora è il numero 17, lettera dell'alfabeto P, la data 1753 e la grande croce fra gli scudi araldici meravigliosi. Si trova ad un centinaio di passi prima dei ruderi del rifugio Popena; sulla sinistra, al piede della
crepacciata rossa,quasi ai bordi del sentiero che sale da Pausa Marza. È così descritto nei documenti. "Termine principale ,numero 17, lettera P nel Cengio con armi e millesimo".

Di un altro vogliamo raccontare il felice ritrovamento, dopo che per anni e decenni (!) era sfuggito persino al grande ricercatore Illuminato de Zanna. Studioso della storia patria, tenace e valido come pochi, al territorio ampezzano ha dedicato un prezioso volume illustrato sul quale, purtroppo, non è riuscito a collocarvelo. Eppure chissà quante giornate l'aveva cercato da solo e in compagnia dei guardia bosco! Il verbale lo descriveva con poche parole: "n. 18, senza lettera, con croce e millesimo, incavato nel cengio al sito del Forame".

Anni addietro con alcuni ricercatori, fra i quali gli appassionati Clara e Roberto Vecellio, muniti di corde metriche adeguate (perché le carte riportavano anche la distanza dal precedente, pari a 217 pertiche e
una pertica = m 3,477) l'abbiamo scovato in fondo ad una caverna. Era veramente occultata da un fitto di mughi e pinastri, a circa metà dello sfranamento che scende dai Crepi del Popena (il sito del Forame?). Ma ci voleva oltre agli strumenti anche un pizzico di fortuna.

IN GITA ALLA CACCIA DEL NOSTRO PASSATO

Nella ricorrenza del 1753, il suggerimento non può che essere una (o più) gita guidata alla scoperta dei cippi di confine di Maria Teresa. I colpi di fortuna e le scoperte sono sempre possibili.
Sia sul segmento di Giau il più comodo e vicino a Cortina; sia su quello che dal monte Piana arriva al Paterno dove ci sono più ombre da diradare e nicchie vuote da chiarire; sia lungo questo che abbiamo appena descritto dal Popéna all'Ansiei. Ci sarebbe infine, tutto da scoprire il tratto di confine, pure oggetto del trattato di Rovereto, che va dal Popèra al monte Croce Comelico e su fino al Quaternà. Per ragioni storiche è stato molto maltrattato, tanto che degli otto stemmi di cui parlano i documenti non ne resta in loco nessuno. Dovunque oltre che dai documenti ci si può far aiutare in maniera scaramantica dalle ombre degli esperti che Rovereto inviò a fare la verifica di tutta la linea confinaria. "Al tenor del trattato, furono incaricati il signor Barone Ceschi, commissario austriaco ai confini e il signor Conte Antonini, provveditore veneto di Udine, di trasferirsi unitamente a due ingegneri sopra luogo, ed osservare per mezzo d'una general rivista di quelli termini, se tutto s'attrovi uniforme ai disegni dell'esecuzione".

Gli antenati erano persone serie: ogni croce doveva essere al suo posto, i gloriosi scudi nobiliari installati a puntino. Verificarlo dopo duecento e sessanta anni può essere persino divertente.