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DOLOMITI, I MONTI IN BILICO

Ennio Rossignoli

12/07/2017
Pomagagnon, Cinque Torri, Sorapis, ricordate? Ogni tanto crollano le montagne dell'Unesco e il magico cerchio delle Dolomiti perde qualche costola. Certo non sono le frane assassine del Toc,  sembrano solo sfregi inferti al paesaggio, forieri però di minacce affondate nel tempo.

Le ragioni ce le spiega la scienza, ma qualcosa va al di là: come il sentimento di un degrado che investe il mondo e la civiltà dell'uomo, e che il millennio della ipertecnologia non riesce a fermare, ma anzi accentua.

Accade così anche a quelle montagne che oltre un secolo fa John Ruskin definiva il principio e la fine di ogni scenario naturale: paesaggi di natura e paesaggi dell'anima, che l'uomo – oltre a leggervi la sfida della conquista e farne il teatro di memorabili imprese – ha sempre chiamato a soggetto di simbolismi affascinanti, anzitutto come luogo d'incontro  del cielo e della terra, dimora degli dei e termine della ascesa umana verso la conoscenza.

Un significato religioso trasversale, perché gli stessi fantasmi del mito sacro hanno popolato la vetta dell'Olimpo di Grecia e del Sinai mosaico, le asperità della Montagna Bianca dei Celti e del Potala tibetano.

Fin dalla antichità delle culture (si pensi solo alla pagine del Vecchio Testamento in  cui il monte Garizim è chiamato “ombelico della terra”, o agli scritti sulla vita mistica di S.Giovanni della Croce) la montagna ha sempre espresso una idea di stabilità, di immutabilità, di purezza, e insieme di centro e asse del mondo: un mezzo per entrare in rapporto con la divinità, un ritorno al Principio.

Né sono mancati i coinvolgimenti letterari e artistici: per non andare troppo lontano, bastino le citazioni manzoniane o il Duomo milanese di Buzzati, la salita pascoliana al monte ideale della poesia, le rocce leonardesche del Louvre o lo Zauberberg dove Thomas Mann confina una umanità febbricitante nel corpo e nell'anima.

Montagne trasportate nello spazio smisurato del mito, luogo dell'innocenza, del sogno senza colpa: come se esse volessero esprimere un loro segreto che gli uomini possono intuire, ma che solo gli amanti o gli artisti sanno capire.

Una vera e propria epopea, che continua nei canti di un amore infinito, di cui le Dolomiti, popolate come sono di sciamani, di larve guerriere immerse nella luce ambigua delle leggende, non potevano non essere le seducenti protagoniste.

Da qualche anno sono per di più “patrimonio dell'umanità”, e ci si può chiedere come mai siano state così tardi comprese e riconosciute tra i tesori naturali di una Italia che ne è ricchissima: da un ormai lontano 1979, quando fu inserita nel loro elenco l'arte rupestre della Val Camonica, pochi luoghi hanno infatti avuto quanto loro il diritto di esservi incluse.

Come ha osservato Fulco Pratesi, tra le infinite catene, gli acrocori, i massicci montuosi del mondo, nessuno ha la bellezza, la grazia, l'eleganza di questi picchi rocciosi che si innalzano su paesaggi verdissimi e boscosi, allietandoli con le loro forme aspre eppure “domestiche”, in contrasto con altre montagne alpine, più severe e corrucciate.